Da un convegno tra le regioni italiane, che ho coordinato, in tema di “cammini” (Clodia, Francigena, Lauretana, Matildica, degli Dei, di Francesco), alcune riflessioni su rischi, prospettive, strategie e senso del “camminare” per turismo, sport, fede, ricreazione.

 

La cosa paradossale, diciamo pure buffa, è che invece di correre e camminare da giovane e di viaggiare con altri mezzi da vecchio, o quasi, ho fatto il contrario: gran viaggi, con il corpo e con la mente, fino a cinquant’anni e poi gran camminate e gran corse (a cominciare dai “Pellegrinaggi artusiani“, ad esempio qui e qui), dopo. Comunque senza smettere di viaggiare, per fortuna.
Non ho però difficoltà a confessare che questo nuovo modo di spostarmi mi ha aperto pure nuove dimensioni, utilissime anche per capire il senso del viaggio e di ciò che lo sguardo coglie durante la mobilità.
Ho provato a spiegarlo, anche se dubito di esserci riuscito, durante la mia breve introduzione al forum “Toscana in cammino verso le altre regioni“, che ho condotto giorni fa nella bellissima Abbazia di Spineto a Sarteano, nel Senese.
Si trattava di un incontro tecnico organizzato dalla Regione Toscana per il coordinamento delle politiche regionali sui cammini e gli itinerari culturali tra i rappresentanti di Toscana, Marche, Lazio, Emilia Romagna, Umbria e Liguria e quelli delle “vie” di pellegrinaggio attualmente esistenti nell’Italia centrale: la Francigena, la Lauretana, la via degli Dei, la Clodia, i Cammini di Francesco, la  Matildica e del Volto Santo. Scopo: redigere un documento comune di indirizzo, detto la “Carta di Spineto“.
Potrà sembrare strano, ma la materia era insidiosissima.
Da affrontare sia da parte mia, col rischio di cadere nella retorica edulcorante e propagandistica che poi tanto piace a chi mira solo a trasformare (in modo del tutto legittimo, sia chiaro) questi fenomeni in risorse economico-commerciali, che, per le stesse ragioni, da parte dei soggetti interessati, a cominciare dall’assessore Stefano Ciuoffo.
Non vi è chi non veda, infatti, come il tema del “cammino” sia non da ora parte integrante di una più vasta filiera comunicativa che mette in linea i diversi elementi dell’industria globale del tempo libero: fitness, running, abbigliamento sportivo, moda, diete e integratori alimentari, elettronica di servizio e dedicata, editoria specializzata, salute, bellezza, turismo, cibo e alimentazione.
La domanda fondamentale che ho posto e che mi sono posto è stata la seguente: può e fino a che punto può il “cammino”, ovvero l’attività di percorrere a piedi, per sport o per intrattenimento o per fede, lunghi itinerari tematici di una o più tappe, nonchè più o meno (anzi: quanto?) organizzati e attrezzati, diventare un fenomeno di massa?
E, in subordine: qual è il limite “sostenibile” di questa forse inarrestabile tendenza alla popolarità (non a caso sostenuta da un imponente marketing) e quindi al farsi massa? E’ possibile che si giunga a un “overwalking” che diventi segmento dell'”overtourism” oggi strangolatore delle città d’arte e dei principali siti turistici? E’ concepibile la “disneylandizzazione“, sotto la spinta dei numeri, dei più famosi cammini?
Infine: fino a che punto l’esistenza dei “cammini” è compatibile con altri percorsi, molto spesso coincidenti e serviti da servizi comuni (ad esempio le strutture ricettive), dedicati ai cavalli, alle bici, alle moto o alle auto? Che effetto può ad esempio produrre (e talvolta già produce occasionalmente), anche in termini di sicurezza e di fruibilità, la convivenza, sulla medesima strada, di centinaia di camminatori e decine di motociclette che la percorrono? Quando, insomma, i soggetti coinvolti non saranno più poche unità, ma faranno appunto massa?
Non a caso erano quattro i punti in discussione ai tavoli tematici del pomeriggio: gestione, comunicazione e promozione, manutenzione e accoglienza.

Non conosco ancora, ovviamente, i risultati delle discussioni che si sono protratte per due giorni nelle umbratili sale abbaziali, ma spero di aver dato un piccolo contributo evidenziando due aspetti forse non marginali che investono il “camminare”.

Il primo, di cui sono stato drammatico testimone durante i Pellegrinaggi artusiani citati sopra, è che l’andare al passo mette in condizione di vedere da vicino non solo il tanto di bello, ma anche il tantissimo di brutto che tutte le nostre strade (incluse, sorpresa!, quelle meno battute, gli sterri, le provinciali fuori mano, insomma le più teoricamente appetibili per il passeggio da diporto) ospitano: dalle architetture più orride ai luoghi abbandonati, fino all’inimmaginabile coltre di sudiciume che copre il ciglio, i bordi, le zanelle, le scarpate, perfino nei luoghi più irraggiungibili e defilati, dove in teoria non dovrebbe passare, e quindi lasciare nemmeno cartacce o bottiglie di plastica, nessuno. Un aspetto da considerare attentamente se si pensa di rendere questi luoghi oggetto di “cammini” intensamente battuti.

Il secondo riguarda invece lo stretto rapporto tra il camminare e l’osservazione del paesaggio.

Che camminando si abbiano più tempo ed agio per guardarsi intorno, panorama compreso, è solo un’apparente banalità. Anche rispetto alla corsa, per non dire della bici, tutte attività che richiedono una concentrazione sulla strada ben maggiori, andare a piedi consente di fare un’attenzione al paesaggio infinitamente più grande, impossibile poi alla velocità di un mezzo a motore. Questione di lentezza, quindi. Ma non di immobilità. In termini di cambiamento di visuale e di prospettive, il cammino è anche uno strumento estremamente veloce, che consente di osservare il mutare dei versanti, il corso dei fiumi, la distribuzione dei boschi e delle colture, la disposizione degli insediamenti e, quindi, anche il loro perchè. Consente inoltre di riflettere in tempo reale sulle cose che si vedono. Insomma è un formidabile strumento di conoscenza.

Non esistono ancora dati certi sulle reali utenze, nè su quelle potenziali, nè sul virtuale giro di affari che una gestione economica e coordinata di questi e di altri “cammini” potrebbe generare.

Forse sarebbe il caso di pensarci per tempo, prima di fare delle scelte