di LUCIANO PIGNATARO
Nova Serra 2000 Greco di Tufo doc in magnum Mastroberardino: è vero che questo è un “rosso travestito da bianco“, ma chi si aspettava di trovarlo “integro e perfetto” dopo 24 anni e dotato di una “complessità fantastica”?
La mia nota passione per i vini bianchi invecchiati mi spinge ad incontri non previsti quando mi trovo in ristoranti di lunga storia con una cantina attrezzata da tempo, come nel caso del ristorante stellato Taverna del Capitano a Marina del Cantone in Campania. Qui il vino trova il suo rifugio sicuro perché fu Salvatore Caputo, figlio del fondatore Alfonso, a decidere di creare uno spazio dedicato alle bottiglie specializzato, una cantina a forma di cambusa di nave dove, anno dopo anno, è cresciuta una delle proposte tra le più ampie della Campania, una attenzione coltivata poi da Mariella, terza generazione con il marito Claudio Di Mauro, tra le prime donne italiane a diplomarsi sommelier con l’Ais.
Ecco dunque spiegata questa magnum 2000, annata calda e difficile, di Nova Serra Greco di Tufo doc (la docg parte dal 2003) di Mastroberardino. Quindi di un millesimo non particolarmente attrattivo in nessuna parte d’Italia, soprattutto per molti rossi anche perché il clima durante la vendemmia fu abbastanza irregolare, tale da rendere difficile la gestione della raccolta.
La docg Greco di Tufo è tra le più piccole in Italia, comprende otto comuni in provincia di Avellino (oltre Tufo, Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Prata di Principato Ultra, Petruro Irpino, Santa Paolina e Torrioni) per una superfice di poco più 700 ettari rivendicati in 62 chilometri quadrati per un totale di quasi 2,5 milioni di bottiglie prodotte fra i 300 e i 700 metri tra le colline tagliate dal fiume Sabato. Dopo la Falanghina del Sannio, è il bianco più venduto in Campania. Si tratta di una denominazione fra le più antiche, riconosciuta come doc nel 1970 grazie all’opera di Antonio Mastroberardino che ne riprese la coltivazione in una fase in cui stava per sparire.
Nova Serra, con Radici Fiano di Avellino e Radici Taurasi fa parte di un trittico pensato e impostato proprio da Antonio per caratterizzare meglio le uve (il disciplinare prevede in genere anche un 15% di Coda di Volpe) e farle esprimere al massimo. Si tratta in pratica di un cru di una collina a Montefusco che arriva sin sotto il paese a quota 600 metri su un suolo franco argilloso con forti tracce vulcaniche.
Quando Mariella ci porta la bottiglia confesso che l’emozione era tanta, mai bevuto un Greco di Tufo di 24 anni anche se, basandomi sulla mia esperienza, sulla conoscenza abbastanza profonda dei vini di Mastroberardino e certo di una conservazione perfetta, perché altrimenti mai sarebbe stato portato a tavola, non avevo dubbi sulla riuscita della beva. E infatti anche il tappo esce senza difficoltà, integro. Il colore, come altre volte era capitato con i Greco più antichi, vira verso il giallo paglierino carico, quasi oro.
Il naso si presenta con una complessità fantastica e difficilmente replicabile, dal cedro al miele di castagno, alla frutta gialla candida, alle note di canfora. Si tratta di profumi intensi, persistenti, talmente gradevoli da costringerci a rinviare l’assaggio che conferma la complessità olfattiva oltre a regalare una potente energia, tipica di questo rosso travestito da bianco. Un vino senza concessioni piacione. Nessun cenno ossidativo, il vino è semplicemente integro e perfetto. La beva è lunga, salata, un vino capace di abbinarsi anche a piatti di mare ben strutturati nonostante il tempo trascorso.
Oggi l’azienda punta sempre più decisa sui tempi lunghi, un esempio è il progetto Stilema che vuole in qualche modo rinnovare lo stile di Antonio Mastroberardino. La bevuta è stata tanto più straordinaria perché questi vini non erano pensati per durare così a lungo, anche se il formato magnum aiuta sempre in questa direzione, vini eccezionali e imbattibile per il rapporto fra qualità e prezzo.