Il silenzio profondo che c’è il mattino presto del primo gennaio non è un silenzio come gli altri.
Non è il silenzio dei normali giorni festivi, quello nel sonno dei quali la gente un po’ affoga gli stravizi della vigilia e un po’ crede di consumare la vendetta per le vere o le presunte fatiche della vita.
Non è il silenzio intriso di pigrizia delle normali vacanze, con quel piacere conformista di alzarsi tardi anziché di sfruttare al massimo il tempo disponibile per fare finalmente più che puoi di ciò che più ti piace.
Non è il silenzio della solitudine o dell’isolamento, perché il primo gennaio è un giorno in cui intorno e sopra e sotto è pieno di gente come te, assonnata, stipata sotto le coltri, incasellata in alberghi, rifugiata in casa.
Il silenzio del capodanno alle prime luci del giorno raramente è un silenzio sereno. Porta con sé anche la vaga sensazione dello sgomento, del senso di colpa, dei postumi potatori e digestivi, della paura, pure solo della fatica di cominciare un nuovo anno che in realtà non differisce in nulla dal precedente se non per la formalità di un numero sul calendario.
È un silenzio intriso anche di malinconia, sia per la percezione del tempo trascorso, sia per gli avanzi raffreddati della festa, i fondi di spumante svaporato nei bicchieri, le briciole e i tovaglioli sporchi di sugo e rossetto.
Eppure, nonostante o anzi proprio per tutti questi sentori dolorosi che lo pervadono, è un silenzio che si fatica a rompere, una crosta che non si incrina con un qualunque rumore domestico.
Non basta il suono di un piatto sbattuto o della moka che borbotta.
Ci vuole il battere di un martello, lo strisciare vigoroso di una scopa, il ruggito del motore di un furgone per destare tutto da questo silenzio triste. E rassicurante solo perché, e fino a che, tutti lo condividono.
Poi l’acidità di stomaco riprende il sopravvento e anche il silenzio di capodanno torna ad essere il quasi silenzio di un festivo normale.