Marsi, Pentri, Peligni. Popoli che fanno una fugace apparizione tra le pagine dei libri di scuola. Fu però solo sconfiggendoli che la potenza romana potè, tra il IV e il I a.C. affermarsi nella penisola. Un romanzo prova a riscrivere la storia dal loro punto di vista.

Il romanzo storico è quel difficile genere letterario che, dando agli autori l’illusione di poter attingere alla storia come riempitivo delle proprie lacune d’ispirazione, tende più di altri a fare facile breccia tra le velleità degli esordienti.
Il risultato, nella stragrande maggioranza dei casi, sono tomi di infinita banalità, di insostenibile noia e di assoluta inutilità. Alzi la mano il critico che non ne è stato alluvionato.
In questo senso il romanzo storico è anche, ammettiamolo, un po’ l’omologo del film in costume: o un kolossal ricco di grandi attori, grandi autori, grande sceneggiatori e grandi produttori, in definitiva di grandi mezzi, oppure una parodia involontaria del passato, un B-movie predestinato a inevitabili effetti comici, tipo Ercole contro Maciste e così via.
Tutto questo per dire che mi ero avvicinato con qualche cautela a un volume (anzi un volumone: quasi 500 pagine) che presentavano alcune settimane fa in Maremma, dal titolo d’acchito già abbastanza incomprensibile: “Viteliù” (Itaca editore, 2012, 488 pagine, 18 euro), ma che vorrà dire? E che appunto, incautamente, si preannunciava, perfino in copertina, “romanzo storico“.
Insomma, mi ero preparato al peggio.
Il primo a metterci una pezza, però, è stato l’autore, Nicola Mastronardi (un collega coetaneo, ho scoperto dopo, ma questo ovviamente non c’entra). Il quale non si è vergognato di confessare subito il vero motivo per il quale si era accinto alla stesura, durata vari anni, del manoscritto: non l’incontenibile tensione letteraria ma la passione per la storia e per la sua terra d’origine, ovvero il Molise e la Marsica. Una terra che, la trama del romanzo lo dimostra, egli conosce davvero palmo a palmo. Come del resto la vicenda delle popolazioni italiche destinate, tra il IV e il I secolo a.C., a contendere a Roma il primato sulla penisola. Genti antiche e forti di una marcata identità culturale. Finite relegate però, nella storia scritta dai vincitori, fatalmente ai margini. Se non nell’oblio.
E’ nell’agitato contesto sociale e geografico post sillano, tra gli echi di una natura ancora tracimante e la fitta rete di grandi e piccoli conflitti, di scontri tra i retaggi di una società silvopastorale e le ambizioni di una potenza emergente, epoche che si sovrappongono, colonizzatori e controcolonizzatori, antiche città in disfacimento e “new towns” in costruzione, eserciti ribelli, utopie anacronistiche e cinismi politici, che Mastronardi ambienta il suo romanzo. Un romanzo che si snoda in equilibrio tra il viaggio e la storia, tra il fantasioso destino dei singoli e la verità del destino dei popoli. Un affresco piacevole, che si prefigge il racconto e non la letteratura, capace di disimpegnarsi bene – grazie alla ricchezza di riferimenti storici, geografici e archeologici – nel non facile compito di rendere divulgativamente comprensibili fatti remoti, dimenticati dalla storiografia ufficiale dell’epoca e per questo sconosciuti ai più. Incluse le vestigia monumentali sparse sul territorio dell’antica lega, per le quali il libro finisce per costituire anche una sorta di esplicito spot.
E se a volte disturba un po’ l’evidente, quasi manichea simpatia dell’autore per le ragioni e le virtù dei vinti, cioè dei suoi lontanissimi antenati italici, ciò è compensato dall’onestà intellettuale che egli dimostra ammettendolo preventivamente.
Meno piacevole e piuttosto semplistica, a dire il vero, pare invece la tendenza, che a tratti affiora dalle righe del volume, a sovrapporre alle vicende di duemila anni fa la sensibilità e una certa morale moderna, in una logica talvolta ai limiti del rivendicazionismo sociale che, a onor del vero, poco o nulla si attaglia alla realtà del mondo antico.
Ma si tratta di un peccato veniale, che si dimentica presto addentrandosi nella lettura e nel cammino, quasi palingenetico, compiuto dal protagonista, il giovane della Roma-bene Marzio, all’involontaria, perfino forzata, talvolta inconfessabile scoperta delle proprie radici familiari.
Il risultato è un libro che, nonostante l’intreccio talvolta prevedibile, avvince, perchè si arricchisce continuamente di contrappunti storici e di descrizioni da reportage odeporico, dando così conto di uomini, dei, luoghi e avvenimenti altrimenti trascurati dall’insegnamento scolastico.
Mi perdonerete se, ricorrendo a un banale artificio da mestierante, ho lasciato in fondo la spiegazione del titolo del romanzo. “Viteliú”, spiega Mastronardi, deriva da una parola dell’antico osco, la stessa che ha dato origine al termine latino “Italia”. Sotto quel nome si erano riuniti i Sanniti, i Marsi, i Peligni, i Piceni e altri otto popoli dell’Appennino centrale per combattere contro la potenza di Roma.
Per chi volesse approfondire il tema, o almeno orientarsi meglio tra nomi, luoghi, genti e usi rammentati nel racconto, tanto il libro quanto soprattutto il sito web ad esso dedicato contengono un utile glossario e un’articolata bibliografia.