Lasciate ogni speranza o voi che navigate: frutto di un diabolico  pactum sceleris tra pubblicità e burocrazia è nato il mostro della reclame inviata via posta elettronica certificata. L’avessero avuta ai tempi del Readers’ Digest…

Negli anni ’70 inventarono il fax (qui un “quasi famoso” esempio cinematomusicale), che da noi arrivò negli anni ’80. E subito qualcuno subito si inventò la “fax art“‎, cioè l’arte concepita e prodotta per essere trasmessa via fax (no comment). Seguì a ruota, naturalmente, l’idea della “fax reclame“, insomma della pubblicità molesta inviata tramite cavo. Come dire la versione cartacea degli odierni seccatori telefonici.
Quindi arrivarono i cellulari e con loro eserciti di molestatori seriali che dai call center ti importunano in ogni momento della giornata, costringendoti al turpiloquio.
Buona ultima giunse internet, con l’alluvione di pop up e spyware che tutti conosciamo, ‎e la conseguente alluvione delle email pubblicitarie con le quali ogni giorno combattiamo.
Lo ammetto: pensavo che oltre non si potesse andare.
E invece sì.
Nessuno infatti aveva finora mai pensato all’eventualità di un’esiziale alleanza‎ tra marketing e burocrazia.
Quale? Semplice: per essere certi non solo che siano ricevuti, ma che nel 95% dei casi siano pure letti prima di essere cestinati con relative contumelie, i furbetti delle reclamina hanno adesso cominciato a inviare i loro volantini usando lo strumento vagamente minaccioso e altamente burocratico della pec.
La pec, per chi non lo sapesse, è la “posta elettronica certificata“, in pratica un’email che ha la funzione e il valore di una raccomandata. Imprese, imprenditori, professionisti sono obbligati ad avere una casella pec, usata di norma per inviare e ricevere comunicazioni legali, fiscali, amministrative, tecniche.
Ma chi, dev’essersi detto il furbetto, se riceve una raccomandata subito non la apre e non la legge?
E quindi, tacabanda!, via alla reclame a/r 3.0. Anche perche’, non dimentichiamolo, mandare una raccomandata cartacea costa qualche euro, ma inoltrare una pec non costa nulla.
Qualcuno osserverà che non è facile entrare in possesso degli elenchi telefonici delle pec, ma mica è vero. Oggi si trova tutto con poco sforzo. E poi la necessità aguzza l’ingegno‎.
Quindi, eccoci all’acqua: cioè alla poco santa alleanza tra burocrazia e pubblicità.
Quale, come, dove? E’ presto detto.
Ci sono uffici pubblici, ad esempio comunali, che dispongono degli indirizzi pec di tutti i residenti nel comune obbligati ad averne uno: basta che uno di questi uffici abbia necessità o sia istituzionalmente incaricato di inviare a tutti quelli una comunicazione, sebbene pubblicitaria,‎ e il gioco è fatto.
Ma gli‎ enti pubblici, qualcun altro osserverà, non fanno reclame.
Sbaglio: la fanno eccome. Pensiamo a eventi, presentazioni di libri, mostre, iniziative varie organizzate dal comune o da un insieme di comuni.
Sento il solito scettico che dice: sono casi teorici, di scuola.
Di scuola un tubo: proprio come la pec inviata ieri al sottoscritto e a un altro centinaio di professionisti e imprese del mio territorio per pubblicizzare un trascurabile seminario di nessuna importanza nè istituzionale nè amministrativa.
Invio dal quale, l’avete capito, nasce questo post.
Ora siete avvertiti: quando sulla pec si accende la spia “messaggio in arrivo” cominciate non solo a preoccuparvi per Equitalia, ma anche ad arrabbiarvi per la spam certificata.
Ed ora penso ai leggendari molestatori postali di Selezione del Readers’ Digest e a cosa sarebbero stati capaci di fare se avessero avuto tra le mani uno strumento come questo.