Soundtrack: “From the morning” (Nick Drake)

Il mattino ha l’oro in bocca

Molti suicidi scelgono le prime ore del giorno per uccidersi. Sylvia Plath si alzò alle sei del mattino, imburrò il pane tostato per i figli e mise la testa nel forno. Ted Hughes era lontano da un pezzo, ma questo conta poco.
D’altronde sono numerosi anche quelli che scelgono il momento in cui tutti gli altri ancora dormono per dedicarsi al lavoro più intenso o creativo, in cui è richiesta la medesima tranquillità e concentrazione offerti dalla notte, ma su cui non pesano ancora la stanchezza e le tensioni di un giorno appena trascorso.
Anche sul nesso tra concentrazione, creatività e suicidio si potrebbe a lungo indagare, ma non è questa la sede.
La verità è che il tempo intercorrente tra un risveglio molto anticipato e quello in cui il resto del mondo – con i suoi riflessi condizionati, i suoi automatismi, la sua macchina che si mette in moto – si desta è un momento magico. Che si tratti di qualche decina di minuti o di qualche ora, offre sicurezze e consolazioni capaci di segnare la vita di ognuno più di tutto il resto del giorno incipiente.
All’alba, e perfino ancora nel cuore della notte, purchè appena svegli, si ha intorno l’incantato silenzio (più psicologico che fisico) dettato dall’isolamento. I simili dormono, il leviatano riposa, nessuno può ancora farti pressione. Perché, affinchè tu sia premuto, è necessario che qualcuno prema. E in quel momento nessuno lo fa. E’ tuttavia un isolamento effimero, a orologeria, perché – ne sei ben consapevole e ciò è parimenti consolante – presto il mondo circostante comincerà a vivere. Lo annunciano gli ancora rari rumori, certi rombi in lontananza, il primo canto degli uccelli diurni. I galli, se i pollai esistessero ancora. E tu puoi anche dedicare qualche attimo ad ascoltarli, compiaciuto e confortato da quei remoti segnali di vita che solo secondariamente, lì per lì, paiono riguardarti.
Nulla ha ancora offuscato i pensieri della sera precedente e il lavorio più o meno consapevole, i sogni, i propositi ruminati nella notte. Tutto ti è limpido, chiaro, pronto a essere trasformato in realtà. In mancanza di altri che, per ora, possano ostacolarla, ogni cosa appare facile da realizzare. Lineare. Puoi lasciarti andare al piacere dell’eco mentale, alla risacca dei ragionamenti, ai rigurgiti della memoria, alla correlazione dei pensieri che, solitamente, rendono fertile un’attività o nutrono le illusioni.
Sospeso tra realizzazione e intento, in quest’indefinibile arco di tempo qualunque progetto vive così la sua stagione di effimero ma lucente cristallo, collocandosi al centro di una scaletta perfetta, dalle cadenze esatte.
Un’architettura dello spirito privilegiata, ma fragile. Che qualsiasi movimento ravvicinato e qualsiasi suono inopportuno possono incrinare. Per questo esiti ad accendere la radio. Sai che, facendolo, segneresti la fine del lungo momento fatale, quando perfino la caffettiera che borbotta è bella da ascoltare, se ovattata da una porta chiusa o dalla cortina, l’intercapedine di una stanza frammessa. Ennesimo messaggio che di là qualcosa già vive, ma di qua ancora tutto può, per un po’, continuare a dormire, ad appartenere solo a te.
Nessun vespero vermiglio, nessun tramonto che sembra oro, oro fino, possono eguagliare il potere estatico di certe ore del mattino. In cui la lucidità esprime il suo massimo potenziale ipnotico, senza tuttavia abbagliare.
Chissà se l’11 febbraio del 1963, a Londra, alle sei del mattino, il sole era già sorto o era ancora buio. E se quel forno aveva le sembianze di un’appendice ancor più nera della notte circostante, dalla quale farsi risucchiare, oppure dell’ombra di un fresco riparo da una luce divenuta già troppo accecante.
Il 16 marzo del 2009 Nicholas Hughes, figlio di Sylvia e di Ted Hughes, si è ucciso nella sua casa in Alaska. Quarantasei anni prima, quel pane imburrato era stato preparato per lui.
“Parlo a Dio, ma il cielo è vuoto” (Sylvia Plath).