Secondo il viceministro, la crisi da Covid costringe a prendere atto del mutamento degli scenari e ad agire di conseguenza. Il giornalismo era in blackout già dieci anni fa, eppure quando lo dicevo io mi davano di  visionario o furbo. E ora?

 

Mi vergogno a dirlo, ma mi sento un po’ come il viceministro Castelli, quella a cui è stato attribuito di aver invitato i ristoratori in crisi da postcovid a cambiare mestiere.

Il discorso della Castelli – alla quale e al partito della quale, lo sottolineo, non mi avvicina nulla – era infatti diverso e molto più articolato. In sostanza faceva riferimento alla necessità per chiunque di prendere atto che attività, domande, mercati, società sono in continua mutazione e che certi eventi traumatici, ad esempio la pandemia, possono a volte accelerare bruscamente le mutazioni in corso o a volte farne emergere in modo brutale un’evidenza che prima si faticava a cogliere.

Dieci anni fa – quando di fronte a uno scenario che, se lo si fosse voluto osservare oggettivamente, era già esplicito, esortavo i tanti colleghi giornalisti impantanati nella palude di un lavoro “autonomo” ormai senza vantaggi e senza prospettive ad avere consapevolezza della situazione e ad agire di conseguenza, inclusa l’opportunità di scendere dalla giostra – fui da qualche frescone accusato dello stesso peccato di cui è stato accusato il viceministro.

Con l’aggiunta, anzi (la mamma dei cretini è sempre incinta), dell’insinuazione che il vero motivo dei miei inviti fosse qualche mio inconfessabile vantaggio, qualche personale tornaconto, qualche beneficio derivante dal far parte di una mai meglio circoscritta “casta” (casta?!?) messa a rischio dall’esistenza su piazza di colleghi più giovani.

Abbiamo visto come è finita: quella che or è un decennio pareva già uno scenario senza speranza è diventato un buco nero capace di inghiottire, dopo i freelance, pace all’anima nostra, i contrattualizzati, le redazioni, i giornali e la previdenza dei giornalisti.

Il sindacato no, quello era una nullità anche prima.

A causa di questa e di altre infelici quanto puntualmente azzeccate previsioni, mi autoribattezzai Cassandro.

Ebbene: oggi, sulla medesima questione, anzichè profezie farò qualche domanda sparsa su nodi che sono a tal punto venuti al pettine da somigliare a un rischio di scalpo.

  • Ha avuto un senso alimentare per due lustri la retorica dei “sogni” e gonfiare di aspiranti l’albo dei giornalisti, le scuole, le facoltà universitarie?
  • Ha avuto un senso introdurre la comica del ricongiungimento, produttore di due fallimentari risultati: spingere centinaia di colleghi a tentare (perdita di tempo e di denaro incluse) un esame di stato ove sono stati fatalmente respinti e affibbiare ai superstiti la patacca di una qualifica da professionisti che non solo non li agevola affatto, ma è una catena che li priva dell’elasticità operativa oggi indispensabile per galleggiare nel mondo del lavoro?
  • Ha avuto un senso azzerare, accettando di fatto il principio del lavoro gratuito o quasi, le soglie di accesso alla professione, dando vita al giornalistificio che ha intasato la categoria dei colleghi di nome, ma in sostanza combustibile a perdere nella caldaia dell’industria editoriale da tre euro a pezzo?
  • Ha avuto un senso alimentare, sostenere, finanziare un’editoria che campa solo se vive della gratuità sostanziale dei contenuti che pubblica?
  • Ha avuto un senso prolungare di tre mesi l’agonia di vecchi e giovani autonomi, strangolandoli con lo stillicidio dei 600 euro versati e in parte ancora da versare con sessanta giorni di ritardo, quando ora le ragionevoli e pur occasionali prospettive di lavoro – tra estate, rischio di seconda ondata, crolli pubblicitari e crisi vere o simulate – non sono a zero, ma sotto zero?

A fine 2019, del tutto ignaro della minaccia da Covid ma perfettamente consavole del resto, scrissi che il 2020 aveva tutte le apparenze di essere l’anno giusto per dimettersi dal giornalismo (qui).

Per una volta, Cassandro è stato preceduto dagli eventi.

E, vi assicuro, non ne gode affatto. Sia perchè detesta sentirsi dire che aveva ragione, sia perchè è convinto che le cose non possano che peggiorare ulteriormente.