di LUCIANO PIGNATARO
Le Serole 2015 Pallagrello Bianco: frutto d’un’avventura straordinaria, è la dimostrazione del gran potenziale di invecchiamento di certi bianchi italiani. Anche assaggiato dopo un Taurasi del 2001.

 

La stragrande maggioranza dei vini bianchi è pensata per essere stappato nell’arco di un anno, massimo due. Nonostante questo, la maggioranza dei vini bianchi italiani presenta straordinarie evoluzioni nel tempo a cui pochi, pochissimi produttori si sono dedicati con cura e con passione, soprattutto nell’areale del Verdicchio e del Fiano di Avellino.
Gli esempi sono tanti, potremmo citare un incredibile Priè Blanc 2008 bevuto di recente, o un Efeso di Librandi da uve Mantonico, o un grecanico di Cantina Marilina 2006 provato in Sicilia, e ancora tanti, tanti vini in tutte le regioni. Per esempio questo Pallagrello Bianco pensato da Luigi Moio per Terre del Principe, l’azienda fondata nel 2003 da Manuela Piancastelli e Peppe Mancini. Giornalista lei, avvocato lui, si incrociano nell’Alto Casertano nella vecchia azienda familiare di lui e iniziano una avventura straordinaria, raccontata mille volte ma sempre bella da ripetere: con Moio avviano il rilancio di tre uve sino a quel momento praticamente sconosciute, Casavecchia, Pallagrello Nero e Pallagrello Bianco, confuse dai contadini e dagli stessi produttori di zona rispettivamente con l’Aglianico e la Coda di volpe, altro bianco campano diffuso lungo la dorsale appenninica.
La fondazione di questa azienda e ben presto seguita da altre e che porta alla valorizzazione di un territorio puro e libero al nord della Campania, ricco di biodiversità e di personaggi che l’hanno fatto grande.
Le Serole è uno dei due bianchi aziendali, quello passato in barrique. L’altro, lavorato in acciaio, è il Fontanavigna. Nel corso degli anni il protocollo de Le Serole cambia sino alla decisione di farlo uscire con un anno di ritardo rispetto alla vendemmia e riducendo l’influenza del legno che, comunque, a nostro giudizio, ha regalato grandi bianchi da meditazione nel primo decennio di questo vino.
Le Serole resta la migliore espressione mai raggiunta da questa uve figlia di un Bacco minore come si diceva qualche anno fa per i vini ottenuti da uve poco conosciute. Una assoluta verità del territorio di cui è figlio, con vini che riescono ad evolvere in maniera molto interessante conservando intatta la freschezza. Come questo millesimo 2015, aperto, pensate un po’, dopo il Taurasi Campoceraso 2001 di Struzziero. Il bianco esprime subito al naso sentori di albicocca e zafferano, piacevoli note balsamiche e un lieve accenno fumé tipico dei vini da terre vulcaniche (qui l’influenza del vulcano spento di Roccamonfina si fa sentire molto precisamente). Al palato colpisce per la sua verve, la sua vivacità quasi giovanile, con rimandi ai sentori olfattivi impreziositi dalle note speziate, frutto e legno in ottimo e convincente equilibrio. Finale lungo, interessante, leggermente amaro. Il palato resta pulito e la voglia di ripetere la beva è comune a tutti.
Un bianco di alto lignaggio, elegante, affidabile, incapace di tradire le aspettative perchè si va a colpo sicuro.
Un piccolo grande miracolo di una viticultura italiana ancora troppo legata esclusivamente alle performance dei rossi e che invece nei bianchi e nei loro tempi di maturazione ha potenzialità assolutamente infinite e tutte da scoprire ancora. Credo che sia questa la nuova frontiera di un movimento iniziato dopo la crisi del metanolo e che adesso ha bisogno di nuovi stimoli, che non sia solo la spumantizzazione.

 

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