…e noi non ce ne fossimo ancora accorti? Divampa il dibattito sulla figura dell'”agricoltore attivo”, l’unico a cui, secondo alcuni, andrebbero riservati gli aiuti Ue. Ma il notaio con una florida fattoria è “attivo” o no? Una questione delicata e solo apparentemente semplice. Intanto le sovvenzioni non bastano a salvare l’agricoltura.

Non amo l’onorevole Antonio Di Pietro, ma gli viene attribuita una frase che a miei occhi gli farebbe riconquistare parecchi punti: “Faccio l’agricoltore perchè me lo posso permettere“. Come dire: di sola agricoltura non ci camperei. E un amico maliziosamente mi sussurra: “E il pericolo è che smettano anche i giornalisti, se non gli danno gli aiuti…”.
Il senso è chiaro: non solo l’agricoltura è talmente in crisi da essere diventata un lusso, o un hobby costoso, ma è grande la possibilità che, se si interrompesse il flusso di sostegni economici a chi la esercita (perchè è ricco, o masochista, o illuso, come più spesso accade al 95% degli agricoltori), pure loro ci metterebbero una pietra sopra. E allora l’agricoltura sparirebbe o quasi dal nostro paese.
Sembra il solito catastrofismo, un piagnisteo d’altri tempi.
E invece ha un fondo di grande verità. Solo che la gente non lo capisce, abituata com’è ad ascoltare la vulgata di certi tamburi (tipo Gianni Riotta e Milena Gabanelli, tipi a cui piace dire ciò che alla gente piace) che da tempo hanno avviato un’insistente campagna di disinformazione sulla questione agricola, banalizzando il tutto nel motto: basta all’agricoltura sovvenzionata.
L’assunto implica anche un sottile ma sottaciuto pregiudizio classista, facendo intendere che – somma ingiustizia! – certi contributi comunitari non vengono, come dovrebbero (secondo loro) riconosciuti ai soli agricoltori bisognosi, ma a tutti, compresi ricchi notai, possidenti e al principe Carlo d’Inghilterra.
E qui nasce l’interrogativo: l’agricoltore va sostenuto in quanto agricoltore, cioè perchè esercita l’agricoltura, o in quanto cosa? Essere avvocati, domestiche, impiegati, marchesi, industriali o bagnini toglie qualcosa alla natura agricola dell’attività che svolgono e, pertanto, al suo diritto ad essere sovvenzionata? Oppure un campo coltivato è un campo coltivato, a prescindere da chi lo possiede e lo lavora, e quindi la sovvenzione va data per questo e non in base alla qualifica formale del coltivatore? Un peperone prodotto da un avvocato è diverso da quello prodotto da un contadino?
Su questo sfondo spunta la questione degli “agricoltori attivi“. Dove per “attivo” si intende “vero” (spostando da qui la domanda sul senso dell’aggettivo “vero”, ma per il momento soprassediamo) e quindi legittimato ai contributi comunitari.
Qual è il limite che separa gli attivi dagli inattivi?
Per qualcuno è burocratico: è attivo chi ha partita iva, posizione inps, iscrizione alla cciaa. Per altri è ancora più burocratico: i “non attivi” avrebbero diritto non ai contributi di integrazione del reddito, ma solo a quelli riconosciuti per la qualità agroambientale. Per qualcuno invece è un problema esclusivamente politico: dipende dalla volontà o meno dei governanti di garantire risorse ai soli agricoltori che hanno come unica entrata quella derivante dall’attività agricola, oppure quella di continuare a garantirle anche a tutti gli altri (“…ed una volta che si è stabilito se il notaio dovrà essere considerato attivo o meno, verranno scelti i parametri giusti per farlo rimanere o non rimanere attivo”, chiosa acutamente un commentatore).
Non manca il parere di chi, non senza ragione, ne fa una questione puramente quantitativa: è “attivo” l’agricoltore che gestisce un’attività in grado di generare produzioni (e quindi premi) superiori a una certa soglia, sotto la quale la redditività è esclusa (in Italia ci sono mediamente 500.000 domande di contributi per somme inferiori ai 500 euro all’anno, pratiche di nessun reale valore economico quindi, ma che intasano uffici e enti pagatori). Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: “Ci sono – dice un altro addetto ai lavori – i part time agricoli, quelli che sono coltivatori iscritti INPS con principale attività agricola (tempo e denaro) ma per arrotondare fanno qualche lavoretto, hanno un Cud piccolo, o una pensione, o sono soci di società con altre attività. E poi la montagna, dove sono quelli esclusivi di tempo e reddito? E le società sono agricole, c’è il legale rappresentante “agricolo” e gli altri no, allora si prende la persona o la società? Quindi l'”attivo” deve essere inteso per forza attraverso una serie di parametri“. Il criterio di esclusione è la marginalità? Ma se così fosse, in valore assoluto qualsi tutta l’Italia sarebbe marginale.
Come si vede, i punti di vista sono tanti, così come i torti e le ragioni.
E mentre il mondo agricolo, politico, burocratico, sindacale si interroga, il tempo passa e l’agricoltura langue. Perchè, a rifletterci bene, la questione non è realmente agricola, ma antiagricola: si discute cioè del diritto a percepire aiuti da parte di agricoltori che non riescono più a produrre autonomamente un reddito con cui sostentarsi. Non di grano, tabacco, vino o latte, si parla, ma di sovvenzioni. Non di trattori, ma della benzina necessaria a farli marciare. Se mancassero i sostegni, l’80% delle aziende italiane chiuderebbe i battenti, con le immaginabili conseguenze economiche, sociali, ambientali, paesaggistiche. Insomma i contributi già oggi non bastano a far sopravvivere le imprese, divenute “roba da ricchi“.
Oggi l’agricoltura è un lusso non solo per chi la esercita, ma per il paese. Possiamo però permetterci il lusso opposto di una campagna abbandonata?
Se così fosse, nè Riotta nè la Gabanelli avrebbero più di che tuonare.