Il 16 agosto si avvicina e con esso le polemiche. Ultima è di Oliviero Toscani, che l’ha preso ad esempio di “campanilismo ottuso” e citato i contradaioli come gente che “passa per scema” perchè non sa parlare d’altro. E se, senza saperlo, avesse ragione? Spegniamo le luci e vediamo che succede.
Quella dei senesi è una sindrome singolare.
Da un lato, giustamente, sono orgogliosi della loro festa e godono – inutile negarlo – per la celebrità del Palio, la sua visibilità, l’interesse che solleva, l’ammirazione che suscita.
Dall’altro però, altrettanto giustamente, sono gelosi della propria tradizione e si irritano se se ne parla a sproposito, o male.
Il problema è che, nell’era della comunicazione globalizzata e dell’ipertecnologia a cui nulla sfugge, le due cose non sono più conciliabili. E non c’è dubbio che il Palio sia giunto, con la complicità un po’ ingenua e un po’ maliziosa dei senesi stessi, a un livello di esposizione mediatica e di celebrità planetaria da cui, se non cambia qualcosa, è difficile tornare indietro.
Sia chiaro, niente di nuovo sotto il sole: essere costantemente sotto gli occhi di tutti è il prezzo che paga chi è famoso. Ma in una massa che, con incuriosita superficialità, preme alle porte non solo per sapere (sarebbe il meno) e vedere, ma sempre più spesso anche per giudicare, è arduo pretendere equilibrio, conoscenza e discernimento.
Coll’avvicinarsi della carriera d’agosto e la crescita dell’entropia che l’accompagna, le mai del tutto sopite polemiche fatalmente si riattizzano, in un intreccio che mescola e dà in pasto all’opinione pubblica un coacervo di questioni tecniche e popolari che vanno dall’uso del “cap” per i fantini durante le prove (argomento bazzecolare per i profani, ma serissimo per i senesi) alle eterne proteste animaliste, dalle strategie delle contrade all’accusa che in una recente intervista (qui) il fotografo Oliviero Toscani avrebbe fatto a un contradaiolo perché, davanti a una tavolata di newyorkesi vip, avrebbe creduto di sbalordirli parlando di Palio senza capire che invece lo guardavano strano solo perché pensavano che fosse “scemo”.
Ecco, sono convinto – e non da ora – che se di una cosa si parla non si possa impedire che qualcuno, magari più d’uno, dica delle sciocchezze. Sincere o in malafede, ha poca importanza. Oggi la gente è sempre convinta di avere le idee, i principi, l’autorevolezza, la capacità e soprattutto il “diritto” di esprimersi su qualunque cosa.
Perché il Palio dovrebbe fare eccezione?
Occorre dunque rassegnarsi (il che non significa non ribattere agli attacchi, è ovvio).
Oppure, lungimirantemente, tornare a una politica di basso profilo mediatico, smorzare i toni, spegnere le telecamere, fare il meno chiasso possibile, smettere di godere se una rivista tailandese dedica un articolo alla festa e di polemizzare se un’altra la critica. In generale, bisogna cessare di usare il Palio come strumento diretto o indiretto di marketing territoriale. Rinunciare alle dirette televisive in mondovisione (le tv locali bastano e avanzano ai senesi per qualità delle riprese e competenza dei commenti), fare a meno delle decine di inviati che arrivano da ogni parte del globo per raccontare la corsa, le sue stranezze, il colore e magari gli incidenti.
Pian piano, se non del tutto in buona parte, quella paliesca tornerà ad essere materia da senesi (qui), ostica da comprendere per i forestieri, marginale nelle cronache, secondaria negli interessi di chi, del Palio, gli importa in sostanza poco o niente come il 99,9% della comunità nazionale e internazionale.
Insomma, per un po’ sarebbe opportuno che fuori dai confini cittadini se ne parlasse di meno. O magari punto. Chissà che anche il ministro Michela Vittoria Brambilla non molli l’osso.