E’ morto di covid Hubert Auriol, leggenda dei motori. Un amico con cui ho vissuto esperienze indimenticabili. Chi ha vinto tre Dakar e finito una tappa con le gambe rotte non dovrebbe andarsene per un cazzo di virus.

 

Era il giugno del 2006, era caldo, era una mattina piena di sole. Mi suona il cellulare. Era un’amica, una collega, anzi un’eroina del rallismo internazionale, Elisabetta Caracciolo. Una che s’è fatta un sacco di Dakar, provando ogni ruolo: cronista, copilota, assistente. Una con cui, tre anni prima, avevamo seguito insieme il Rally dei Faraoni in un’avventura indimenticabile.

Che fai a settembre?“, mi chiede.

Io: “Boh, perchè?“.

Hubert organizza una cosa in Cina e cerca un giornalista italiano, hai voglia di andare?“, fa lei.

Io, abbastanza sbalordito: “Hubert chi?“.

E lei: “Hubert Auriol“.

Fu così che lo conobbi e ne divenni amico.

Lui era una leggenda dei motori. Vincitore tre volte della Dakar, sia in moto che in auto. Un manico pazzesco. Brillante, intelligente e pure guascone al punto giusto. Stava provando a organizzare in Cina una sorta di nuova Dakar orientale, che poi è diventato il China Grand Rally. Ingolositi dall’idea, i diffidenti cinesi gli avevano detto: fai un’edizione zero, di prova e di lancio, poi vediamo. Hubert non ci pensò due volte. Trovò una flotta di Yundai Galloper ben attrezzate, ci mise sopra una ventina di piloti dakariani e altrettanti giornalisti a fare da navigatori (l’unici italiani io e il mio amico Aldo Pavan) ed ecco pronto il Green Raid: dieci giorni di raid (quasi) non competitivo nella Mongolia Interna cinese. “Una ricognizione preparatoria“, la definì burocraticamente lui per rassicurare i padroni di casa. Invece si filava come razzi.

Difficile raccontare, qui e ora, come andò. Fu una di quelle cose che per intensità, divertimento, meraviglia e surrealtà delle circostanze superano l’immaginazione. Lui dirigeva tutto, ma c’era sempre. Non mancò un evento ufficiale (ed erano tanti), eppure era puntualmente presente alle zingarate. Sia quando il governatore della regione gli cadde ai piedi ubriaco dopo una cena all’aperto passata a dissetarsi con la grappa, sia quando il mio pilota ed io (un pazzo canadese francofono di nome Michel Schumacher, proprio così, infatti i ragazzini cinesi lo prendevano per il vero Schumi e chiedevano l’autografo anche a me come suo “vice”) nel buio pesto finimmo con la macchina dritti in un lago di liquame in mezzo al nulla e arrivammo al raduno imbrattati e maleodoranti oltre ogni dire. Hubert lì con gli altri, a prenderci in giro.

Il giorno dopo ci tallonava a velocità folle su un sentiero dove si procedeva a vista. A un certo punto vediamo la ruota del suo fuoristrada superarci: l’aveva persa contro una buca, ma lui non si sa come era riuscito a fermarsi e a divertirsi pure.

Dopo ci siamo sentiti e scritti per un po’, lui era pieno di iniziative, io seguivo quello che faceva.

Era qualche anno che non lo sentivo.

Oggi, a 68 anni, se l’è preso il covid. Lui, uno che aveva strabiliato il mondo arrivando in fondo a una tappa della Dakar guidando con tutte due le caviglie fratturate. Immagini che fecero il giro del pianeta.

Lo saluto invece con la foto che vedete sopra. E mi perdonerete se è sfuocata. La feci col telefonino la notte della sbronza del governatore.

Quello a destra è Auriol, quello a sinistra Aldo. Tanto per capire l’atmosfera.

Buon raid, Hubert.