di URANO CUPISTI
Come al solito volevo andare in Val Badia, ma mia moglie mi convinse. Così passammo San Silvestro in aereo e il Capodanno all’all-inclusive. Ci volle una Vespa a noleggio per scappare. E allora…
Ogni anno mia moglie mi rivolgeva la solita domanda: “Che facciamo a Capodanno?”. E io rispondevo (traducendola poi in pratica) la solita cosa: “Andiamo in montagna con gli amici a camminare, sciare e fare il tour delle baite. Ovviamente in Alta Badia, località Pescosta, Pension Maria, come sempre“.
Quella volta, però, lei mi prese in contropiede: “E se invece andassimo a Zanzibar? Mare, 30 gradi e costi accettabili“.
Restai di stucco. E così, un po’ perchè non seppi oppormi con prontezza e un po’ per fare contenta la mia signora, accettai.
Era l’inverno del 1991..
A Zanzibar in effetti ci arrivammo, passammo al mare una settimana e, sinceramente, spendemmo molto meno che in montagna. Però a San Silvestro le cose presero una piega strana, diciamo.
Andammo da viaggiatori o da turisti? Fate voi: la scelta ricadde su di un villaggio all-inclusive gestito da un tour operator italiano, il più affidabile di allora, quello del famoso slogan “Fai da te? Ahi, ahi, ahi“. Il ritrovo fu con un centinaio di altri connazionali pronti a festeggiare il nuovo anno nell’isola misteriosa dell’Oceano Indiano: puntuali come cadetti, Milano Malpensa, il 30 dicembre mattina.
Il piano prevedeva otto ore di volo. Considerando il fuso di due ore avanti e partendo alle 12, l’arrivo era previsto (e pubblicizzato nel depliant) per le 22 ora locale. Ma, tanto per cominciare, rimanemmo in aeroporto ad attendere il volo fino a notte, causa “mancato arrivo dell’aeromobile“. Un classico.
“Si parte domani”, ci annunciarono costernati. E quindi via sul pullman messo a disposizione dal tour operator. Destinazione Milano centro, a un’ora e mezzo di distanza. All’una di notte conquistammo un letto per riposare qualche ora.
Il 31 dicembre, sempre alle 8, rieccoci nuovamente in aeroporto. Solito calvario, però: la partenza slittava di ora in ora, con le hostess di terra che si affannavano in scuse per il ritardo e i disagi al cospetto di vacanzieri sempre più nervosi.
Alla fine riuscimmo a partire alle 14.
Subito dopo il decollo, tra me e mia moglie scese il silenzio.
Ma al posto nostro parlavano gli sguardi.
Il mio diceva: “Bella la mia Val Badia, accidenti a me e a quando ti ho dato retta”.
Il suo era ben più disperato: “Se l’aereo ci impiega otto ore, più due di fuso, vuol dire che arriveremo in aeroporto a mezzanotte e al villaggio alle due!“.
Andò esattamente così.
Comunque trovammo l’immancabile cocktail di benvenuto, con tanto di corona di fiori, l’atroce foto di gruppo con gli animatori e un cenone tardivo e assonnato, con addosso gli abiti invernali nella notte tropicale. Era tutto compreso nel programma e tale fu. Benvenuti a Zanzibar.
Il giorno dopo, ore 9, sveglia e riunione nello spazio destinato agli incontri per ascoltare l’organizzatore e il responsabile del Bravo Village sui servizi offerti, le eventuali escursioni “molto turistiche”, i consigli per coloro che avessero scelto di visitare l’isola, gli orari da rispettare, eccetera.
In pratica ero a Zanzibar ma mi pareva di essere a Lido di Camaiore. Otto ore di volo per trovarmi insieme a lucchesi, pisani, livornesi a fotografare qualche uccello spennacchiato, apparenti nativi in posa con abiti tradizionali che poi, però ritrovavi a servire nella sala ristorante. Che bello, pensavo. Poi tutti in piscina a ballare l’hully gully (“Siamo i Watussi…) e a partecipare a giochini infantili sotto lo sguardo colmo di compatimento di alcuni Watussi veri.
Mia moglie saggiava il mio umore: “Caro, ti diverti?”. Io, serio: “Un sacco”.
Il terzo giorno, però, resuscitai.
Presi in pugno la situazione: siamo a Zanzibar vediamo di portare a casa qualche sensazione da viaggiatori. Noleggio un vespino indiano, tiro giù un itinerario decente per i rimanenti tre giorni di soggiorno e tanti saluti al Bravo Village.
Cambiò la musica.
Stone Town è il capoluogo dell’arcipelago. Un’architettura tipicamente swaili con unione di elementi moreschi, arabi, indiani ed europei, a testimonianza di tante invasioni ed influenze. Un intreccio di stradine e mercatini fuori dal tempo. Il Forte Arabo costruito per difendersi dai Portoghesi, era utilizzato anche come prigione, il Vecchio Dispensario, noto come Palazzo delle Meraviglie, con gli splendidi balconi intagliati e i numerosi mosaici esterni e interni mi colpironmo molto. E poi il Darajani Market, principale bazaralimentare della città, con frutta, spezie, cereali, pesce e carne di ogni tipo.
E dei babbuini e scimmie rosse ne vogliamo parlare? Appena fuori dal centro storico inizia la Masingini Forest, che di questi animali era piena: i colobi, tipiche di Zanzibar.
Il mio ricordo più bello è però il Butterfly Center, un’attrazione unica con le coloratissime farfalle a svolazzare in uno spazio riservato solo a loro. Roba da perdere la nozione del tempo.
Ora dopo ora mi riconciliai con l’isola che sulle prime avevo detestato. Le mille sfumature di azzurro delle acque dell’Oceano Indiano mi dettero il colpo di grazia. Mi inoltrai su spiagge remote, lontanissime da quelle che, già allora, davano segni di sfruttamento turistico. Feci amicizia coi pescatori dei piccolissimi villaggi e condivisi con loro la mensa del “pescato del giorno” cotto con le spezie tipiche del luogo. I coralli, le sabbie bianchissime, il mare. In una solitudine a volte surreale.
Devo ammetterlo: non ho mai dimenticato quel capodanno zanzibarino, l’alternativa alla “solita Val Badia”.
Sono passati trent’anni, le cose devono essere parecchio cambiate.
Ma chi viaggia lo sa: prendi ciò che puoi, se puoi, quando puoi, come puoi.
Io presi.