Scritto con le cadenze del libro di viaggio, un romanzo che veleggia tra le sponde del Mediterraneo, Venezia e Costantinopoli, controriforma e harem. E dove l’arte di osservare, arbitra del destino, resta sospesa tra pittura ed elemosina, verità e finzione.

 

Mi capitano ciclicamente sotto mano racconti in cui la religione – intesa in senso di pura fede, senza connotazioni confessionali – funge da reale motore della storia. E finisce, dispiegandosi nelle sue manifestazioni terrene, per costituire il maestoso fondale delle vicende. Un brodo di coltura in cui realtà e immaginazione, fatti veri e seducenti suggestioni si inseguono fino a costituire il vero nerbo emotivo del romanzo.
Quando il gioco funziona, i risultati sono entusiasmanti.
Mi era successo anni fa con “Un mese in campagna“, di James Lloyd Carr, e più di recente con “Azazel” di Youssef Ziedan (mia recensione qui), libri certo diversissimi per calligrafia e ispirazione, ma ambedue straordinari per potenza lirica e capacità evocativa. Idonei, in entrambi i casi, a elevare l’individualità a paradigma e il singolo a metafora del collettivo.
Si pone in linea con questo spirito un altro libro magnifico, che ho appena finito di leggere: “Il Turchetto“, di Metin Arditi (Neri Pozza, 255 pagine, 16,50 euro). Romanzo pluripremiato, è vero. E questo non sempre è un buon segno.
Eppure nulla, in esso, indulge al prevedibile e al banale. Nulla ne fa un’opera risaputa e ammiccante. Al contrario, essa spicca per ritmo e misura, per la sottile capacità di penetrazione e di indagine, per il saper insinuarsi tra i piani stratificati dei fatti storici, delle tensioni che li attraversano e dei personaggi che, spesso involontariamente, li interpretano.
Il libro è, anzi potrebbe essere, la storia di un quadro.
Al Louvre c’è un dipinto seducente ed enigmatico, attribuito a Tiziano: l'”Uomo con il guanto“. Ma il vero autore non è il Vecellio. Si tratta invece dell’unica opera superstite di un artista suo contemporaneo, grande e famoso quanto lui: il Turchetto. Tanto grande da aver spinto il maestro veneziano, pur di salvare almeno il dipinto, se non la vita e la memoria stessa dell’artista, dal rogo dell’Inquisizione, ad apporre in extremis la propria firma in calce alla tela. Tela ricevuta in dono, come segno di riconoscenza, dal collega ed allievo, figura di primissimo piano delle arti figurative della Venezia di metà del ‘500.
Questo pittore era Elia Soriano, figlio del povero servo ebreo di un mercante di schiavi, fuggito bambino da Costantinopoli – da qui il nomignolo – proprio perchè tanto la sua religione quanto quella dei padroni turchi gli proibivano di esprimere la sua più incontenibile, insaziabile vocazione: dipingere.
E’ in un gioco di intrighi di corte e di profumi di spezie, di necessarie menzogne e di ambizioni inconfessabili che la sua vita si dipana in una sorta di avventurosa palingenesi. La quale, come prigioniera di un rewind inesorabile, riporterà Elie ai luoghi e allo stato esistenziale delle sue origini: il Corno d’Oro, il bazar, i giannizzeri, le elemosine. Ricco solo di due occhi per osservare. E di una mente per immaginare in silenzio un’arte nata, e tornata, impossibile.