Il giornalismo è un lavoro. Delicato, ma pur sempre un lavoro, mica una missione. Eppure è pieno di soldatini che rischiano la vita per conquistare una quota inutile e di comandanti che li assecondano, mandandoli al macello. Solo in pochi si fermano in tempo. No buono…

 

Mi sono sempre rifiutato di vedere il mestiere di giornalista come una professione eroica o almeno votata all’eroismo.
Sono convinto che ci sia bisogno di buoni e ardimentosi cronisti, più che di cavalieri senza macchia e senza paura.
E vedo spesso (non sempre, ovviamente) in questi presunti cavalieri una deriva militante che a mio parere si concilia poco o punto col giornalismo.
Il nostro poi è un lavoro in cui servono non solo fanti coraggiosi, ma generali responsabili, capaci di gestire le truppe e la strategia, prevenire le mosse del nemico e mirare alla vittoria finale, anzichè di vincere singole battaglie con enormi perdite umane e nessun vantaggio tattico. Servono capitani che guidino gli assalti con la testa, prima che con la sciabola, rischiando di beccare una palla tra gli occhi e lasciare la truppa allo sbando.
Invece noto un sacco di stati maggiori che bevono thè e pensano alle parate mentre i soldati muoiono al fronte, sempre ammesso che ci sia un fronte e che il nemico non sia immaginario. Vedo capitani troppo timorosi o troppo temerari, con risultati catastrofici. Vedo un sacco di fanti-giornalisti intenti a combattere una guerra che non c’è e che se c’è è diversa da quella che loro pensano di combattere. Vedo nugoli di spie, doppiogiochisti, disertori e imboscati che, forse anche giustamente, tirano a campare in un conflitto in cui ormai non si sa chi è contro chi. E siccome finchè c’è guerra c’è speranza, diceva Sordi, nessuno desidera che qualcuno proclami il fatidico “tutti a casa!“.
Ciò non è bello, ma è umano. Avrebbe soltanto bisogno di un’energica raddrizzata.
Solo che, viceversa, ogni volta che si sente parlare di giornalismo e dei suoi problemi c’è il solito rigurgito retorico sull’eroismo, sul giornalista-detective votato a ogni rischio, sul cane che invece di fare la guardia si trasforma in lupo, o in volpe, o in faina.
Mai che si parli di onesti, coscienziosi cronisti, di equilibrio, di terzietà, di capacità di raccontare, di sviscerare, di rendere comprensibili i fatti, di gente con esperienza che ha la pacatezza di sapere come ci si atteggia di fronte alla realtà ed è consapevole che questa non è quasi mai manichea, bianca o nera, con i nostri e i loro.
In altre parole: mai che si parli di quella sobrietà, un po’ incanaglita e un po’ grigia d’accordo, un po’ cinica è vero, che però ancora contraddistingue chi fa bene e quotidianamente questo nostro ormai disgraziato lavoro.
Che è appunto un lavoro, non una missione.
Qualcosa che deve, anche o almeno soprattutto, farti vivere, non mandarti al macello a inseguire una gloria che non c’è. Dunque si dovrebbe anche parlare del fatto che anche il coraggio ha un prezzo, anzi un giusto prezzo, e che il prezzo stesso dà, o contribuisce a dare, un tangibile valore al lavoro svolto.
Invece, no. Ovunque è pieno di fantaccini che rischiano la vita per conquistare una quota inutile in cambio di nulla e di comandanti che li assecondano.
Solo in pochi si fermano in tempo.
No buono