Giza, 26.2.2011

Note a margine di un tour un po’ surreale attorno alle grandi tombe. Che, orfane forse per la prima volta da decenni della consueta folla di turisti, sembrano galleggiare sulla polvere sollevata dal respiro della grande metropoli. Mentre la Sfinge sta a guardare.

I venditori di paccottiglia quasi non credevano ai loro occhi. Un pullman, finalmente. No, anzi, due! Gli unici all’orizzonte. I primi da molte settimane a questa parte. E di italiani, per giunta. Paolo Rossi, viva l’Italia, sono un italiano, Schillaci. La litania comincia e non si arresta più. Come i pastori di un presepio, lenti ma inesorabili, si avvicinano cammellieri, ragazzini in cerca di biro e di monetine, mercanti di immancabili papiri, spacciatori di scarabei. Pieni di un’insana speranza. Beati di una cieca, incrollabile fiducia nel mostro sorridente del turismo. Sorprendentemente mansueti, talvolta perfino generosi. La fame di turisti è tale da spingerli a offrirsi, gratis e con insistenza, per le foto ricordo. Vogliono stringere mani, mettersi in posa. Ti riempiono la borsa di kefiah (made in China, va da sè) in regalo. Invano.
Sullo sfondo, appollaiati a considerevole altezza sui gradoni della piramide di Cheope, decine di sfaccendati ciondolano nel dolce far niente, sonnecchiano, chiacchierano. Sembrano la versione in technicolor di certe immagini seppiate dell’epoca di lord Carnavon. Come loro, gli agenti della polizia turistica restano accampati su un cigolante fuoristrada. A sorvegliare sul nulla.
Cinquecento metri più in là, in fondo a una sinuosa striscia d’asfalto che si inoltra nel deserto roccioso e porta sulla cima di una collinetta, c’è l’unico spiazzo dal quale è ancora possibile fotografare le tre piramidi di Giza facendo finta che le stesse non stiano per essere ingoiate dalle fauci della metropoli.
Ci arriviamo senza difficoltà. La garitta delle guardie è vuota. Un vento implacabile spazza il piazzale deserto, sollevando nubi di polvere. Tutti seduti sul muretto, con il sole del tramonto in fronte e il panorama più fotografato d’Egitto alle spalle. Silenzio, tranne i nostri schiamazzi e il frusciare della brezza. Una timida jeep che si muove in lontananza accresce il senso di isolamento ed esalta, sul fondale caliginoso, l’enormità dei monumenti.
In tempi normali, avremmo dovuto fare i turni solo per avvicinarsi, sperando di scattare la foto ricordo dalla quarta fila, dopo un accanito corpo a corpo a colpi di gomito, brache e sandali. Ma anche qui, oggi, siamo soli.
Riscendiamo. Sfioriamo la piccola piramide di Micerino, sovrastata dalla mole di quella di Chefren, che per effetto della posizione rialzata e del residuo rivestimento sulla sua sommità sembra più grande perfino di quella di Cheope, la piramide delle piramidi.
Di scendere dal pullman e di lasciare l’impronta delle scarpe sul velo di sabbia che, senza i turisti, in pochi giorni si è già depositato sul suolo solitamente calpestato ogni giorno da migliaia di piedi, neanche a parlarne. Ordini superiori. Paura di chissà che cosa. O forse del nulla. O forse di un nemico invisibile chiamato normalità.
Noto che le sgangherate botteghe del papiro sono ancora lì dove le avevamo lasciate l’ultima volta. E quel tremendo Pizza Hut incastrato al primo piano di una casupola giallastra, proprio a fianco della Sfinge, non si è mosso da dove è sempre stato. Sembra solo avere i vetri più opachi del solito. Non deve aver sfornato molte salami pizza negli ultimi tempi.
La visita a Giza è già terminata. Piazzisti e cammellieri ci guardano allontanarsi. Sono colmi di delusione, forse rassegnati, mentre attraversando i parcheggi deserti guadagniamo il viale.
Tra andata e ritorno, centottanta minuti di bus per un quarto d’ora passato all’aria aperta, coi polmoni pieni di pulviscolo, smog e cenere d’illusioni. Mi chiedo quando riavrò l’opportunità di tornare qui senza umanità intorno. Un’altra occasione irripetibile gettata al vento. O forse solo l’ennesima, minuscola scheggia di un Egitto solenne, eterno e immutabile.