MEMOIRTAGE/3. E’ sempre divertente, in viaggio, farsi affascinare dai segnali del destino, veri o presunti. Capità così che nel borgo maremmano, complice il Morellino, paiano intrecciarsi quelli di santi e briganti.
Il mio rapporto col borgo maremmano di Magliano in Toscana è tormentato e dura da circa sessant’anni.
Si divide in due fasi ben distinte.
Durante i primi quattro decenni, sebbene per ragioni balneari frequentassi con regolarità la zona, sapevo a fatica della sua esistenza e, cosa assai strana, nemmeno la mia pur assai peripatetica attività professionale mi ci aveva mai condotto: ci avevo solo, e spesso appunto, girato intorno. Restava la curiosità per quel nome e la bizzarra puntualizzazione che fosse “in Toscana”: ci sono un sacco di paesi in Italia che si chiamano nello stesso modo e con menzioni geografiche diverse (es. Magliano Sabina, celeberrimo per ragioni autostradali), che bisogno c’è però – pensavo – di specificare la regione? Mi sembrava, insomma, un esercizio di toponomastica competitiva.
Durante i successivi due decenni ci sono tornato invece almeno una volta all’anno, tutti gli anni. E ho conosciuto gente, sindaci, luoghi, storie. Ma un po’ per volta, passeggiando. Cadenzando le visite e le perlustrazioni quanto basta a contemplare la lenta metamorfosi dell’abitato: da paesotto un po’ polveroso, ruspante, abbastanza sperduto (a dar retta almeno all’immaginario collettivo) nell’infuocato entroterra della Maremma, a “nuova Capalbio“, come ora sento dire e come certe recenti frequentazioni vip (da Pino Daniele a David Beckham) lasciano intendere, con ciò che pericolosamente ne potrebbe conseguire. Al momento, per fortuna, senza effetti negativi tangibili.
La lenta trasformazione di Magliano si potrebbe sintetizzare tutta nel progressivo rifiorire delle sue mura quattrocententesche, che la segnaletica indica come “senesi”.
Sono ellittiche e circondano l’intero abitato. Fino a qualche tempo fa ero convinto che l’avessero circondato in passato, prima di scoprire che il versante nord non era scomparso, ma semplicemente inglobato nelle abitazioni e reso poco visibile da superfetazioni e vetazione infestante. Un recente restauro ne ha rimesso a nudo una porzione e ha ripulito ciò che resta del cassero, una poderosa muraglia inclinata controverso, in una postura che sembra frutto di un’onda geologica anomala.
La parte meridionale della cinta muraria, pressochè integra dopo lunghi restauri, è invece un vero gioiello. Imponente nei suoi oltre trecento metri di lunghezza, possente, quasi diafana per via del colore pallido della pietra che in certe giornate si fonde con la caligine da caldo e da bruma, rendendo a volte la veduta, scollinando dalla provinciale, simile a una sorta di miraggio. Ha saputo resistere a crolli e procelle anche recenti, con danni tali da poter dissuadere in teoria anche il più determinato e facoltoso dei restauratori. E invece no: oggi le mura di Magliano sono non solo un’attrazione turistica, un eccezionale luogo panoramico e una bella passeggiata, ma una sorta di agorà lineare. Ospitano tre porte (tante almeno ne ho contate durante le mie esplorazioni, invero sempre un po’ distratte per via di altre cose enoiche a cui fare attenzione) e tanta gente sanguigna, che non si è montata la testa. Speriamo che duri.
Tutto il resto, che malignamente qualcuno potrebbe definire gentrificazione e che io invece chiamerei, con lieve slittamento semantico, ingentilimento, è venuto da sè, in modo non appariscente, pezzo dopo pezzo.
Ogni anno, d’agosto, a Magliano organizzano un’iniziativa popolar-vinicola, “Vinellando“, ove da tempo mi onoro di fare da presidente della giuria che è chiamata a scegliere alla cieca il miglior Morellino, vino maremmano per eccellenza. Un rosso robusto che formalmente si chiama, sì, “di Scansano“, ma conosce anche a Magliano ottima qualità e notevoli volumi di produzione.
A fianco di tutto questo, che è in qualche modo istituzionale, esistono poi i colpi di fortuna. O le congiunzioni astrali, se preferite. Insomma quelle circostanze in cui ti capita di essere nel posto giusto al momento giusto. E quest’estate, a Magliano, me ne sono capitati due nello stesso giorno. L’incontro con un personaggio di grande spessore, che vive lì da almeno vent’anni, ma in pochi lo sanno (ne taccio l’identità perchè sarà presto su questi schermi con un ritratto ad hoc), e la visita in un luogo che già conoscevo, ma avvenuta in un momento direi incantato. Tramonto, luce radente, aria dilavata alla perfezione da una recente tempesta, cielo azzurro, nessuno attorno, giochi di ombre e di pietra: poco fuori dal paese, i resti del monastero di San Bruzio – nel silenzio della solitudine – sono capaci di produrre un effetto emotivamente tellurico. Intorno ondeggia una campagna palpitante di olivi, senza nulla di scabro. Maremma tutt’altro che amara. Il paese sullo sfondo. Nemmeno un ronzio. E le sedie vuote di uno spettacolo che deve ancora cominciare sono lì, immobili, a fare a loro volta da spettatori muti.
Gli imponenti resti dell’edificio scoperchiato, la cui fondazione risalitebbe al Mille e che le enciclopedie attribuiscono a uno stile romanico-gotico, si stagliano contro la volta celeste, assumendo nel contesto curiose suggestioni quasi moresche. Un solitario piccione appollaiato su un pilastro fronteggia perplesso il bassorilievo di un capitello superstite. Fai una breve ricerca e scopri che San Bruzio è una storpiatura del nome del martire romano Tiburzio, il quale però richiama curiosamente anche quello di Domenico Tiburzi, il più famoso brigante maremmano dell’800. Strani incroci, non c’è che dire. E non si può dire siano stati effetti del vino.
(*) MEMOIRTAGE è la crasi tra memoir e reportage, ossia tra memoria e cronaca. In pratica una rubrica (a cadenza, lo premetto, assai irregolare) in cui mi divertirò, tra fatti, ricordi e suggestioni, a raccontare luoghi e situazioni in cui mi capita di ritrovarmi dopo lungo tempo. Un po’ un esercizio di stile, un po’ racconto e un po’ giornalismo, ma sempre verità. L’unica che, letteratura a parte, dà un senso allo scrivere.