La denominazione di Scansano ha compiuto quarant’anni facendosi – giustamente, come quando si taglia quel traguardo – un po’ di domande e guardandosi sia alle spalle che davanti. Con un convegno e una degustazione piuttosto illuminanti sulle luci e le ombre del presente.
Quarant’anni e non sentirli.
Oppure sì?
Con il 2018 la denominazione del Morellino di Scansano (doc dal 1978 e docg dal 2007) è entrata nella cosiddetta mezza età, detta altrimenti piena maturità, e quindi ha ritenuto opportuno farsi un po’ di domande. Anche perchè il momento non è facile e quindi interrogarsi sul futuro, cercando di capire per quali strade è arrivato il presente, sembra quantomai opportuno.
E’ successo a Scansano l’11 giugno scorso, con un convegno e una degustazione ragionata, ambedue orientate a far luce, appunto, sullo ieri, l’oggi e il domani del vino maremmano per eccellenza.
Il quale però, diciamolo subito, non è certo più il “fenomeno” di qualche lustro fa, quando l’Italia vinicola e non solo sembrava sul punto di inchinarsi alla next big thing giunta dal grossetano.
Il Morellino di oggi ha infatti diversi problemi di identità commerciale, stilistica e tipologica, una divaricazione troppo marcata tra i grandi numeri da gdo e la produzione di qualità, una dimensione grande quanto basta ad essere una importante realtà produttiva (10 milioni di bottiglie l’anno) ma spargola e ridotta quanto basta a non essere un gigante (circa duecento soci su sette comuni di vaste estensioni, ma a bassa densità abitativa). E’ anche un’area che, in buona parte, ha beneficiato in modo relativamente ridotto degli effetti a cascata dell’economia turistica costiera (pensiamo a Bolgheri, ad esempio) e dello stesso nome “Maremma“, andato a spalmarsi su un ventaglio molto più ampio di vini e di consumatori.
Ovviamente c’è tempo e spazio per recuperare terreno, e di questo si è parlato appunto durante il convegno celebrativo scansanese, ma occorre capire bene attraverso quali leve.
L’incontro non ha mancato, in tal senso, di destare qualche sorpresa.
Marcato ad esempio l’orientamento, sottolineato sia dal sindaco Francesco Marchi che dal presidente del consorzio Rossano Teglielli, al recupero di un valore aggiunto enoturistico di cui il territorio del Morellino ha finora in effetti approfittato in misura minore del prevedibile. La sorpresa sta, a parere di chi scrive, non nell’aspirazione in sè, abbastanza ovvia, ma nel fatto che questa un po’ tardiva presa di coscienza si manifesti quando lo stesso fenomeno sembra in procinto di affrontare una complessa fase di ripensamento, o diciamo pure di adeguamento, che forse andrebbe tenuta in maggiore considerazione di quella, in chiave molto troppo mercantile, delineata da Carlo Pietrasanta, rappresentante del Movimento Turismo del Vino, nel corso del suo intervento.
Intervento terminato tuttavia con un altro, interessante messaggio di risposta indiretta al primo cittadino, che aveva parlato di un rilancio turistico attraverso la valorizzazione dei 27 km del tratto locale della via Clodia (lo storico percorso est-ovest attraverso il territorio dell’intera denominazione): “Bisogna che i viticoltori evitino gli errori del passato – ha ammonito Pietrasanta – e gestiscano questo business direttamente, senza affidarlo a hotel e ristoranti“.
Non privi di chiavi di lettura nemmeno altri passi del presidente Teglielli, che ha fatto un esplicito appello all'”unità delle doc maremmane, nel rispetto delle rispettive autonomie“.
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Passando la parola ai bicchieri e al loro contenuto, per il commento affidato a un palato competente come quello del collega Filippo Bartolotta, bisogna dire che la masterclass sul Morellino attraverso assaggi mirati è stata in linea con gli orientamenti emersi dal convegno. Ovverosia basata sul latente dualismo tra le identità diverse, talvolta opposte, che il medesimo vino incarna: longevità o immediatezza, Morellino o Sangiovese, grande vino o prodotto di largo consumo?
Sul tavolo, i campioni di dodici aziende e di otto annate diverse, quasi a voler prendere in esame la testa, il cuore e la coda della denominazione.
Eccoli: Sellari Franceschini, Morello 1982; Erik Banti, Ciabatta 1982; Fattoria Le Pupille, Poggio Valente 1998; Roccapesta, Celestaia 2007 (ris.); Morisfarms, Moris 2010 (ris.); Val Delle Rose Famiglia Cecchi, Poggio al Leone 2013 (ris.); Fattoria Mantellassi, San Giuseppe 2016; Terenzi, Morellino di Scansano 2016; Villa Patrizia, Lorneta 2016; Podere 414, Podere 414 2016, Poggio Brigante, Poggio Brigante 2017 e Monterò, More 2017.
Non si è trattato di vini per forza “buoni” ma più che altro rappresentativi, nelle rispettive epoche, proprio dell’eterogeneità di mani, stili, vitigni, tecniche, suoli che fino ad oggi paiono aver costituito tanto il limite quanto la peculiarità della denominazione. E che, proprio per questo, la rendono quasi per natura poco idonea a quei processi di zonazione, di orientamento al monovitigno e più in generale ai tentativi di regimentazione che si registrano in altre aree vinicole toscane.
Ma se le vecchie annate rappresentavano giusto una curiosità su epoche che, in ottica Morellino, sembrano preistoria, le bottiglie del 2016 e i campioni da botte del 2017 hanno restituito un’idea piuttosto chiara delle molte vie che i produttori percorrono, incluse soluzioni decisamente eretiche rispetto al recente passato, come un ampio uso del cemento e dell’acciaio.
Insomma, forse la vita del Morellino (ri)comincia davvero a quarant’anni?