E meno male, aggiungo. Il convegno fiorentino dei giorni scorsi lo ha confermato: al di là del mezzo tecnologico utilizzato, siamo tutti nel medesimo calderone. Con un rischio in più: che la “velocità” della rete faccia da turbo al giornalistificio. In un boom che ricorda le “radio libere” dei ’70.
Ne avevo il ragionevole sospetto, ma la certezza me l’ha data, rispondendo a mia precisa domanda, il collega Marco Renzi durante una pausa di Dig.it, il primo incontro nazionale sul giornalismo e l’editoria digitale che si è svolto – su iniziativa dell’Assostampa toscana, il gruppo Digiti e Ldsi – il 4 e 5 luglio scorsi a Firenze. E della quale Renzi è stato uno degli animatori.
La domanda era: “Ma che avrebbero di diverso i giornalisti “digitali” rispetto a tutti gli altri”? Risposta: “Nessuna“. Insisto: “E allora perchè si rimarca tanto su questa definizione?”. Risposta: “Perchè se non lo si dice, la gente non lo capisce”.
Insomma siamo tutti uguali nel grande calderone del giornalismo.
Se ciò sia rassicurante o meno, giudicatelo voi.
A me preme invece evidenziare l’aspetto che – astrusità tecnologiche a parte, alle quali sono irrimediabilmente impermeabile – più di tutti è emerso dalle giornate fiorentine: il mezzo digitale ha cessato di essere un semplice strumento ed è divenuto parte integrante del sistema dell’informazione. E’ un medium a tutti gli effetti, insomma. A cui, per la sua naturale viscosità, il sistema stesso, nelle sue architetture e articolazioni, fa fatica ad adattarsi. Dando così la sensazione che quello sia un mondo a sè, quando non lo è affatto.
Accade allora che una mole immensa di informazione e di lavoro on line premano nell’aria, in attesa che qualcuno si decida a cernirle, organizzarle, ordinarle, inquadrarle. Sia sotto il profilo professionale che sotto quello sindacale e previdenziale.
Impresa non facile. Perchè i linguaggi, i temi e i modi del digitale sono spesso trasversali rispetto al convenzionale. E perchè, appunto, il convenzionale tende per natura ad opporsi ai cambiamenti. Temi sui quali l’incontro toscano ha aperto un dibattito tutto da sviluppare. Non ultimo, a mio modesto parere, quello del restyling formale e sostanziale della catena di comando all’intento delle testate.
I problemi, però, sono anche altri. Di natura più generale. E grossi.
La facilità d’uso e la sua economicità tendono ad esempio a favorire la nascita, in progressione geometrica, di siti, testate, portali sedicenti “di informazione”. Dove tuttavia l’informazione è spesso da individuare sotto l’aspetto della professionalità, intendendo per questa sia la natura effettivamente giornalistica dell’attività svolta, sia l’aspetto cruciale della sua remunerazione. Sia anche della natura giuriudica della struttura editoriale. Può ravvisarsi professionalità, ad esempio, nel diffusissimo volontariato? E questo può avere natura giornalistica? Professionalità e volontariato sono compatibili in un settore delicato come quello dell’informazione, soprattutto laddove il costo ormai quasi irrisorio dell'”hardware” può consentire praticamente a chiunque di aprire giornali via web? Realtà di questo tipo possono “insegnare” il giornalismo? Ed è pensabile che sia attività di editore quella svolta non in forma di impresa, ma di associazione o ente senza fini di lucro?
A pensarci bene, è un film già visto. Almeno per chi ha qualche anno sulle spalle: è un boom del tutto analogo a quello che, quasi quarant’anni fa, riguardò le cosiddette “radio libere“. Poi ribattezzate, non a caso, “emittenti private“: termine che sta a indicare come tali soggetti possano essere anche contenitori di informazione, ma non siano informazione di per sè. Con tutti le questioni di trasparenza e di rispetto della legge sulla stampa che ne conseguono.
Un nodo a cui fanno da appendice, da un lato, le misure di sostegno finanziario da più parti invocate per i “new media” nati come funghi negli ultimi anni e, dall’altro, le promesse fatte forse con troppa faciloneria da chi quelle risorse dovrebbe metterle sul piatto. Ad esempio la Regione Toscana, che a Firenze, per bocca dell’assessore alla cultura, Cristina Scaletti, ha preannunciato per l’autunno un bando di finanziamento, dai contorni e la ratio per ora abbastanza fumosi, a favore delle imprese attive nel settore dell’editoria on line.
Il problema è che poi vai a vederli, questi giornali in rete, e scopri che di giornali sovente non hanno nulla. Nel senso che non contengono informazioni, ma pubblicità, marchette, testi senza capo nè coda scritti alla buona (se va bene: ho letto un italiano terrificante con errori di ortografia da terza elementare). Sono talvolta diretti da impiegati comunali, guardie campestri e geometri, tutta bravissima gente che il giornalismo, però, non ha idea di cosa sia. La remunerazione del lavoro è zero (tanto c’è chi sgomita per lavorarci gratis) e il vero problema di quasi tutti è accaparrarsi una manciata di inserzionisti per pagare le spese, meglio se strappandoli alla concorrenza. Meglio se guardando in cagnesco quelli che, legati in qualche modo alle istituzioni, sono “sovvenzionate” e visti pertanto come concorrenti sleali.
Sia chiaro: ci sono fior di testate on line in giro. E fior di professionalità. Ma sono l’1% rispetto al cialtronismo imperante. Quanto basta tuttavia agli improvvisatori per definirsi editori o giornalisti e reclamarne i diritti (dei doveri invece, ad esempio terzietà e indipendenza, neanche a parlarne).
Ora, che sia giusto sovvenzionare indiscriminatamente queste iniziative (che non so nemmeno se definire imprenditoriali), ancorchè formalmente regolari, ho dei dubbi.
Che sia opportuno dargli dignità di organi di informazione, pure.
Non ho dubbi invece sul fatto che debba evitarsi ad ogni costo che l’on line si trasformi, più di quanto non si sia già perniciosamente trasformato, nel nuovo carburante del giornalistificio, cioè nella spinta alla diabolica rincorsa che tende a spingere chiunque a riciclarsi in giornalista senza averne i titoli, gli esami, i redditi minimi, la necessaria professionalità, l’indispensabile cultura e l’auspicabile mestiere.
Diciamo che il Dig.it di Firenze si è fermato qui e che il resto è da sviluppare.
Facciamolo presto, però.