Il 5 maggio 1981 moriva di fame, in carcere, Bobby Sands. Irredentista irlandese, militante dell’IRA, membro (per venticinque giorni) del parlamento britannico, scrittore, poeta, martire. Una figura tragica, di straordinario coraggio. Capace di volare sopra. E quindi meritevole di essere ricordata. Comunque e a prescindere. Come i vividi murales di Derry.
Ci vuole un coraggio da leoni per affrontare certe pressioni e superare certe prove. E questo coraggio merita sempre onore e rispetto, qualunque sia la ragione che lo muove.
Ieri era il trentesimo anniversario della morte di Bobby Sands (1954-1981), scomparso al termine di un drammatico sciopero della fame la cui vicenda all’epoca fece il giro del mondo e impressionò profondamente l’opinione pubblica.
Quelli che eufemisticamente vengono chiamati “troubles”, cioè la questione nordirlandese, rappresentano un nodo complesso e tuttora, nonostante infiniti tentativi ed annunci, irrisolto. Secondo alcuni, insolubile. Certamente un groviglio tentacolare in cui torti e ragioni, lecito e illecito, ideologie e strumentalizzazioni, diplomazia e politica si intrecciano sovrapponendo storia e attualità.
Non mi voglio addentrare qui in una questione che sembra, e forse è, la tessera di un puzzle in infinito divenire. E di cui l’attualità offre appunto continui rigurgiti e contrapposti strabismi. Ho letto ieri (poco: non so se per negligenza mia o se per un distratto, diffuso silenzio sulla ricorrenza) di qualche manifestazione, di disordini temuti, di piccole mobilitazioni. Soprattutto nell’ambito della cosiddetta destra, con tutta l’incongruenza che questa logora scansione comporta. Tutto sempre troppo marchiato, manicheo, aprioristico, pregiudiziale.
Non sono questi cascami che mi interessano, nè l’infinito, a volte stucchevole dibattito per stabilire se Sands fosse nel giusto o meno.
Ma è difficile non ammirare la determinazione, tanto forte da essere capace di trascolorare in ferocia, di chi sa dedicarsi a una causa fino al massimo sacrificio. Così come è difficile non conservare stampati per sempre nella memoria i colori vividi dei murales di Belfast e di Derry, dipinti dalle opposte fazioni e tanto grandi da occupare le facciate intere delle case. Ora monumenti e ora manifesti, ora minaccia e ora pro memoria, sembrano rappresentare il bubbone, il sintomo pulsante di un’epidemia indebellabile. Le scritte, i mitra, le catene, i simboli e uno strato di pittura che pare denso e ancora fresco impressionano e feriscono più di qualsiasi libro e di qualsiasi articolo. Vanno osservati con attenzione, letti e decrittati nella loro complessità, tenuti a mente come i messaggi esoterici di un affresco medievale.
Di tale, insuperabile complessità Sands era probabilmente consapevole. Convinto di combattere una battaglia dal fine indubbio, ma dall’esito incerto.
Il privilegio che può avere oggi chi, nell’incedere lento di un’auto, ha l’opportunità di percorrere a naso all’insù quelle strade di periferia, i quartieri da working class di cattolici (e protestanti) irlandesi, è grande. E’ una sorta di rito di passaggio dallo status di visitatore a quello di viaggiatore. Un vaccino, una purga. E una cicatrice. Piccola, magari. Ma di quelle che non spariscono mai.
“Mi trovo alla soglia di un altro mondo palpitante. Che Dio abbia misericordia della mia anima. Sono molto triste perché so di aver spezzato il cuore a mia madre, e la mia famiglia deve sopportare il peso dell’angoscia più grande. Ma ho considerato ogni possibilità e ho cercato con ogni mezzo di evitare ciò che è diventato inevitabile: vi siamo stati costretti, io e i miei compagni, da quattro anni e mezzo di atroci disumanità […] Se non sono in grado di uccidere il desiderio di libertà, non potranno distruggerti. Non mi distruggeranno perché il desiderio di libertà, e della libertà della popolazione irlandese, è nel mio cuore. Verrà il giorno in cui tutta la gente d’Irlanda potrà mostrare il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna “ (da “I diari di Bobby Sands”).