Maddalena Mazzeschi, storica pr vinicola toscana, dà alle stampe “Tappi, tacchi e miracoli“, libello di aneddotica professionale che, oltre a far sorridere, è un Bignami di trent’anni di storia della comunicazione nel settore.

 

C’è una vecchia canzone di Neil Young, tra delle mie preferite a dire il vero, che a un certo punto parla di lunghi tragitti percorsi insieme e del baule di ricordi che fatalmente li accompagna. Ora, certamente non posso dire che il cammino professionale mio e di Maddalena Mazzeschi, storica pr toscana del vino, siano stati proprio coincidenti. Ma in qualche modo paralleli, forse, sì: per tempi, luoghi, costumi, circostanze e settore di attività. Lei sulla sponda delle pubbliche relazioni, io su quella opposta, e a volte contrapposta, dell’informazione. Una vicenda oltremodo articolata, che continua da metà degli anni ’80 e della quale siamo dunque reciproci testimoni, in un rapporto di stima e lealtà. Attitudine, diciamolo, non frequente in certi ambienti.

Inevitabile perciò che in “Tappi, tacchi e miracoli“, il memoriale aneddotico appena dato alle stampe da Maddalena, io abbia ritrovato con piacere molti personaggi, sebbene spesso abilmente dissimulati dall’autrice, e molte vicende note o sussurrate. Di alcune delle quali, decisamente esilaranti, sono stato spettatore diretto, se non addirittura coprotagonista. Donde la convinzione che tutti i 79 episodi narrati siano veri, oltre che capaci di strappare un sorriso a chiunque abbia bazzicato in modo del vino degli ultimi (ahinoi) trent’anni.

Proprio per questo, però, secondo me non sono i pur godibili aneddoti il punto forte del libello (Giraldi Editore, 180 pagine, 18 euro). Lo sono, invece, le tappe di carriera che essi indirettamente scandiscono, finendo per immortalare in una serie di istantanee come, in questo lungo e per molti versi rivoluzionario e rivoluzionato arco di tempo, si sono evoluti tanto il giornalismo di settore, la comunicazione, le tecniche, la tecnologia, i linguaggi (scritti, parlati, del corpo, dei modi) di un comparto, quello vinicolo, il quale da marginale si è fatto sociale e da nicchia si è fatto costume, quanto la categoria dei produttori e la loro mentalità, i mercati, l’economia vinicola.

Intendo dire, cioè, che al di là di ogni amarcord e di ogni tenera ironia che i racconti possono sollevare, affiorano dalle pagine anche una galleria di figure e di strumenti che, come in un documentario, raccontano il dipanarsi di un mondo vero, nato giovane, diventato maturo ed oggi pure un po’ tendente al vecchio. Fattosi fenomeno tra entusiasmi ed errori, abbagli clamorosi e intuizioni fulminanti, promesse mancate e sorprese inattese.

E’ facile insomma, tra le pagine del libro, rivedersi, riconoscere, a volte perfino vergognarsi un po’ e talaltra compiacersi. Questo il primo, divertente stadio. Il secondo, più profondo e malincomico, è rintracciare nella lettura una sorta di bigino  – poco accademico, ancora meno scientifico, ma brillante  – della lunga parabola del vino italiano (e non) post metanolo e di chi, dai due lati della barricata, ha contribuito a divulgarlo.

Con una necessaria e doppia precisazione, però: direi che il test in pista a Magione sulla Lamborghini Countach avvenne prima e non dopo la degustazione (sennò col fischio che la proprietaria ti e ci prestava la macchina) e che, sia chiaro, il sottoscritto appartenne al 20% dei piloti, anzi diciamo pure al 10%, che il motore non lo fecero impiombare al rilascio della frizione, ma lo fecero allegramente ruggire. Parola del compianto Henry Morrogh.