Dal convegno di Cutigliano (PT) sulle prospettive aperte, per il clima che cambia, a una viticoltura “di montagna”, ma non per forza “eroica“, emergono i rischi e le opportunità di un fenomeno in crescita, da cavalcare con prudenza.

 

In Italia il 9% dei vigneti (dato Osservatorio UIV) è coltivato a più di 700 metri sul livello del mare e in Toscana  sono circa 1.200 gli ettari di vigna ubicati a oltre quella quota, che segna il discrimine tra collina e montagna. Sono inoltre già una decina le aziende vitivinicole, piccole ma strutturate, attive nel comprensorio montano dell’Appennino pistoiese, la montagna lucchese e l’Alta Versilia, un fenomeno di recupero e di reinsediamento fino a qualche anno fa inimmaginabile. E che sul versante opposto della regione, il Monte Amiata, non solo vive gli stessi fermenti ma, complice la vicinanza con la ricca Montalcino, ha da tempo sollevato l’interesse pure di grandi e famose cantine, desiderose di investire sulla ricerca di aree più fresche ove produrre l’uva, e quindi il vino, di domani.

Ma se ancora si aspettava una riprova del forte interesse che da qualche tempo si addensa attorno al tema della viticoltura di montagna e delle sue implicazioni socio-agro-climatico-economiche, la risposta si è avuta venerdì 26 gennaio scorso. Quando, la mattina di un giorno di lavoro di fine gennaio, un convegno dedicato all’argomento e organizzato dal Gal Montagnappennino, in collaborazione con Accademia dei Georgofili e Accademia Italiana della Vite e del Vino, è riuscito a richiamare tanta gente da riempire per intero la sala principale del Palazzo dei Capitani a Cutigliano, un luogo non proprio a portata di mano, a due passi dall’Abetone. Nonchè a fare il pieno di relatori di peso, tra i quali il direttore del Dipartimento Enologia del Crea, Paolo Storchi, Alessio Cavicchi, docente del Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Pisa, Oreste Gerini, direttore generale per la promozione della qualità agroalimentare del Masaf, Marco Vieri dell’Università di Firenze, e un pugno di agguerriti produttori “eroici” venuti a raccontare la loro esperienza.

A me invece il più modesto compito di coordinare la seconda parte del convegno, affidata alla voce dei sindacati agricoli e della Federazione delle Strade del Vino, dell’Olio e dei Sapori della Toscana, presieduta da Pier Paolo Lorieri.

A consuntivo dell’evento, e al di là della comprensibile soddisfazione dell’organizzatrice e presidente del Gal, Marina Lauri, la sensazione emersa è stata quella di trovarsi di fronte a un’opportunità invitante, ma non priva di rischi e anzi ricca di incognite tutte da approfondire, onde evitare facili entusiasmi e pericolosi passi falsi.

La questione dei nuovi vigneti in altura è infatti complessa almeno quanto complesso, e fragile, è per definizione l’ecosistema della montagna.

Se da un lato è evidente come, a causa dell’innalzamento climatico, i terreni in quota – finora ritenuti inadatti alla viticoltura, se non appunto “eroica, e non di rado abbandonati da decenni proprio per la loro improduttività – possano tornare idonei alla coltivazione della vite, in fuga da calore e siccità, e quindi fungere anche da volano per la nascita di una nuova imprenditoria legata al vino, dall’altro non devono sfuggire le criticità di quegli stessi contesti non solo sotto il profilo strettamente agronomico, ma anche o forse soprattutto idrogeologico, infrastrutturale, occupazionale e sociale.

Criticità destinate quindi a rendere invitante, ma niente affatto scontata, la prospettiva di una potenziale transizione dalla fase dell’attuale ‘”eroismo” enoico fatto di pochi numeri, poche figure, modeste dimensioni, poche bottiglie, a una viticoltura imprenditoriale soggetta alle leggi di un’economia tanto matura quanto articolata come quella vinicola.

Non ha stupito e a tratti ha entusiasmato, dunque, la determinazione dei vignaioli chiamati a Cutigliano a portare la testimonianza delle proprie esperienze (da Gregorio Ceccarelli di Terre dei Lontani a Marco Rossetti di Casale alle Piane, da Andrea Elmi di Maestrà della Formica a Cipriano Barsanti di Macea, da Angelo Bertacchini dei Gigli a Luca Cannonieri e Michele Manelli di Novelleto).

Ma è toccato Paolo Storchi rammentare le difficoltà, nella viticoltura di montagna, rappresentate dalla delicatezza delle scelte varietali (ad esempio attraverso il recupero di vitigni autoctoni e l’impianto di varietà a ciclo breve), e dalla necessità di provvedere ad accurate sistemazioni idraulico-agrarie, indispensabili per prevenire l’erosione in un contesto a rischio come quello montano.

Da parte sua, anche Alessio Cavicchi ha evidenziato come la creazione di professionalità multidisciplinari diffuse e adeguate alle particolari condizioni delle aree di montagna sia una premessa indispensabile per lo sviluppo in altura di una concreta economia vitivinicola, al pari dell’instaurazione di una dialettica costante, più pratica e poco cattedratica, tra tecnici e produttori (i cosiddetti “living labs“) volta sia alla diffusione della conoscenza in sè che all’incoraggiamento dell’innovazione tecnologica. Innovazione indispensabile, ha sottolineato Marco Vieri, anche sotto il profilo della meccanizzazione del vigneto. Tutte condizioni che però si scontrano spesso con la burocrazia e con norme concepite per contesti diversi.

Permangono poi gli ostacoli indiretti, divenuti endemici dei territori montani reduci dallo spopolamento dell’ultimo mezzo secolo, legati alla polverizzazione fondiaria e alla conseguente difficoltà per l’impresa di reperire terreni vitati o vitabili, spesso posseduti pro indiviso da proprietari numerosi, irreperibili, litigiosi e disinteressati a qualsiasi recupero: ha fatto rumore, in sala, la testimonianza del vignaiolo dell’Alta Versilia che, per mettere assieme i campi sufficienti a realizzare un ettaro e mezzo di vigna, ha dovuto stipulare, per fortuna con un atto collettivo, ben 102 (centodue) contratti d’affitto diversi. “Un provvedimento per agevolare la ricomposizione fondiaria è necessario non solo per il sostegno alla viticoltura, ma in generale per l’intera agricoltura di montagna“, ha ammonito Oreste Gerini, che ha anche richiamato le nuove difficoltà legate all’abolizione della compravendita dei diritti di reimpianto e alla necessità, anche in quest’ottica, di provvedimenti agevolativi per la vitivinicoltura montana.

Un invito finale agli operatori, alle istituzioni e alle organizzazione dei produttori ad approfittare dell’opportunità offerta da questa “nuova” vocazione dei territori montani è venuto in chiusura da Pier Paolo Lorieri, che ha però messo in guardia dai rischi dell’omologazione e dalle sirene di un (eno)turismo di massa che, per natura, mal si attaglierebbe al carattere della montagna.