Da ogni punto di vista, il caso di Alex è incredibile per ingenuità, grossolanità, pressappochismo personale e istituzionale. Ma è la coda di un fenomeno superato. Il futuro dello sport dopato è altrove. Nei nuovi Pistorius e nei cinesi-frankenstein, ad esempio.
Ho assistito desolato, come sempre mi accade nei casi di frode sportiva, al caso Schwazer, con sentimenti oscillanti, secondo il momento e i ragionamenti, tra l’indignazione e la compassione. Credo sia uno stato d’animo molto comune.
Sull’argomento i commenti già si sprecano e il mio mi pare inutile.
Mi sembrano però da sottolineare due aspetti, entrambi sconcertanti. Con una terza considerazione.
Se crediamo all’atleta, che dice (inverosimilmente) di aver fatto tutto da solo, dallo scandalo escono tutti a pezzi: non solo la Federazione e il Coni, ma anche l’entourage di Alex, perché è da non credere che un tesserato-personaggio di quel livello venga lasciato libero di agire in solitudine (in tutti i sensi: possibile che a un olimpionico, a tre settimane dalla gara della vita, sia consentito di allenarsi per lunghi periodi all’estero senza avere al seguito un allenatore, un preparatore, un tecnico e uno staff dedicati, un manager, un assistente, qualcuno insomma per non dire della fidanzata-pattinatrice e campionessa mondiale che cade dal pero? Mah… Se invece gli è consentito, è anche peggio). E ovviamente ne esce distrutto, come ne è uscito, lo stesso marciatore: tanto per la disonestà quanto per l’ingenuità, visto che è inspiegabile il motivo per il quale un campione esperto possa solo concepire di iniettarsi sostanze illecite che sa perfettamente essere individuabili al primo banale controllo. A meno di non pensare alla volontà di un suicidio sportivo.
Se non gli crediamo, e quindi non siamo disposti a bere l’affermazione che Schwazer si è “autoamministrato”, il quadro è perfino peggiore: perché vorrebbe dire o che l’intero sistema è gestito in maniera dilettantesca, artigianale, pressappochistica (il che, pur con tutte le possibili tare legate all’”italianità”, è altrettanto incredibile: qui si parla di professionismo, di Olimpiadi, di grandi organizzazioni, di interessi economici e di sponsor, non di bocciofile), al punto da poter essere aggirato anche da un singolo scellerato, o che invece il sistema stesso è complice, colluso, consapevolmente negligente.
Che l’organizzazione, cioè – italiana e non: diffido di chi, in un mondo globalizzato, ragiona in termini di confini nazionali o amministrativi: siamo seri, lo sport è un’industria planetaria – è piena di buchi, di zone grigie, di punti deboli, di lacune più o meno tollerate, di porti franchi, di figure intermedie nel nome di un’ipocrisia o, più probabilmente, di un cointeresse generale più grandi di qualsiasi sbandierato principio.
Dal che consegue ciò che peraltro è evidente e reso palese dalla concatenazione dei fatti. Ovvero che, pur forse con mille discontinuità e senza una sistematicità assoluta, il doping fa parte dello sport a tutti i livelli e farla franca o meno è solo una questione di organizzazione, di raffinatezza dei metodi, di abilità gestionale, di capacità di relazione e magari pure di contiguità con i controllori.
Il prossimo passo, del resto, anzi la nuova frontiera è il doping tecnologico. Lo stesso che, mutatis mutandis, con l’avvento dell’elettronica ha rovinato gli sport del motore. Cioè l’utilizzo di strumenti, o di materiali, o di appendici capaci di migliorare le prestazioni meccaniche dell’attrezzo o dell’uomo stesso (pensiamo ai costumoni del nuoto, ad esempio).
Che accadrà quando inventeranno scarpe che, grazie a un microchip, miglioreranno la velocità dell’atleta o ne ottimizzeranno lo sforzo in base al terreno, al clima, al bioritmo, rendendolo più resistente e quindi più efficiente?
Il momento non è lontano. Se Pistorius – personaggio istintivamente simpatico, anche perché competitivamente inoffensivo – comincerà a vincere, grazie a protesi capaci non solo di limitare il suo handicap fisico, ma di dare addirittura un vantaggio sui normodotati, cesserà immediatamente di costituire un caso umano e passerà giustamente tra i dopati dello sport.
Insomma, forse il doping chimico fa già parte del passato e la nuova frontiera sono la genetica (vedi il caso della nuotatrice cinese Ye Shiwen, più veloce degli uomini) e la tecnologia. Via libera allo sport bionico, insomma. Cioè finto.
Del resto, è vero o no che i nuovi campioni – tatuati, esibizionisti, spesso più attori che atleti – somigliano sempre di più ai personaggi immaginati dalla fantasia di scrittori, cineasti e cartoonist?
Il pensiero dei lettori è gradito.