Un bel volume di Maurizio Boldrini, Bruno Bruchi e Roberto Cappelli, riccamente illustrato, rende onore al più celebrato (e a volte anche criticato) produttore del famoso rosso senese. Schivo e altero, gigione e severo al tempo stesso, il decano dei vignerons incinesi parla di sè, della sua famiglia, della sua storia. E dei suoi vini, ovviamente.

Corsi e ricorsi, direbbe Vico.
Conobbi Franco Biondi Santi molti anni fa, nel 1988. Io ero ai miei esordi di giornalista o quasi, lui una celebrità internazionale da tempo. Era poi l’anno del centenario del Brunello di Montalcino, l’evento che portò il vino (e riportò Biondi Santi) alla ribalta planetaria del grande pubblico. Si era alle porte del boom, ma ancora nessuno lo sapeva. Era anche l’anno delle Olimpiadi invernali di Calgary. Ed è buffo pensare che proprio mentre sono in corso quelle di Vancouver, canadesi un’altra volta, io mi trovi qui a parlare del libro (edito da Protagon) dedicato a Franco, visto che quella prima intervista mi fu concessa solo a condizione che fosse possibile interromperla per vedere la discesa della prima manche di Alberto Tomba in slalom speciale. Che infatti vedemmo insieme, al Greppo, tifando ambedue con malcelato trasporto.
Sono passati 22 anni e se già all’epoca Biondi Santi era considerato il “grande vecchio” del Brunello, oggi si può tranquillamente dire che, con i suoi quasi 90 anni (è della classe 1922) ne rappresenta il monumento.
Un monumento onorato, senza dubbio, ma non sempre rispettato. Anzi a volte perfino sbeffeggiato per l’indefettibile volontà di mantenere al suo vino quei connotati di severità, austerità, longevità assoluta tanto passati di moda negli ultimi anni di Brunello “allegro”. Al punto da trovarsi talvolta in difficoltà durante certe degustazioni comparative alle quali, va detto, il produttore si è opposto sempre con il medesimo argomento: “Il mio vino sembra peggiore di altri? E’ perchè è ancora troppo giovane, riassaggiatelo tra vent’anni”.
Di questo orgoglio, della compiaciuta riservatezza, degli innumerevoli riconoscimenti, di riti e miti (dalla “ricolmatura” delle riserve storiche alle due bottiglie di Brunello 1888 ancora conservate in cantina), ma anche di certi aspetti meno noti dell’attività di Biondi Santi, come l’impegno per la rinascita dell’abbazia di Sant’Antimo o i rimpianti per il Moscatello (o almeno per quello che lui chiama “vero”, per differenziarlo dalla versione moderna), il vino di famiglia che al Greppo si smise di produrre nel 1969, il libro dà puntuale conto. Il tutto grazie pure a un apparato fotografico e iconografico di prim’ordine, con gli scatti di Bruchi e un ricco portfolio di immagini d’epoca, diplomi, etichette, documenti messi a disposizione dallo stesso Franco, e a uno stile narrativo pacato, puntuale, scevro per fortuna dai toni adulatorii e voli pindarici a cui il personaggio e l’argomento potrebbero indurre. Ci sono molti racconti, molta cronaca, molti virgolettati che, attraverso la bocca del protagonista, ripercorrono la vicenda della famiglia, della fattoria, del Brunello e del Greppo. Facile, si dirà. Beh, mica poi tanto vista l’orgia di inutile melassa spesso scatenata quando si parla di certe superstar del vino.
A metà strada tra celebrazione e strenna, documentazione e libro da leggere, le 160 pagine di “Questa terra è la mia terra” si rivelano piacevoli e utili, godibili sia da chi ha poca familiarità col personaggio e sia da chi, conoscendolo più da vicino, apprezzerà le spigolature o trarrà soddisfazione nel riconoscere le persone, gli aneddoti, le figure che emergono dallo scritto e dalle foto.
A conti fatti, non è poco.