Un intreccio di ipocrisie e di interessi inconfessabili nasconde la realtà: per la tutela dei campi il vero problema non sono i predatori né la fauna selvatica, ma norme tagliate a misura dei cacciatori. Ovvero di chi, gli animali, ha tutto l’interesse che ci siano. Ma per sparargli.
Leggevo giorni fa sul corriere.it (qui) un molto condivisibile articolo di Danilo Mainardi sulla nuova crociata che aleggia contro quel magnifico animale che è il lupo. E dell’ipotesi, avanzata in Commissione Agricoltura alla Camera, che la legge riapra l’opportunità di sparare al predatore quando questo minacci il bestiame. Un’ipotesi contro la quale c’è stata la comprensibile levata di scudi delle associazioni ambientaliste e che ha indirettamente innescato, non senza risvolti grotteschi, un rigurgito dell’antica, assurda guerra tra agricoltori e difensori degli animali.
Ora, che il lupo, da qualche decennio, sia tornato a popolare i monti e le colline dell’Italia centrale non è una novità. Una presenza rarefatta, ma innegabile. E’ tornato però trovando un contesto sociale e ambientale completamente cambiato: terre abbandonate, agroindustria, paesi-dormitorio, strade e traffico ovunque, altre specie proliferate in quantità abnorme. E soprattutto gente e allevatori non più abituati alla sua presenza. E, quindi, nemmeno a pensare in funzione di essa.
Vivo in campagna, in una zona ricca di allevamenti, e quindi so bene per esperienza diretta di cosa parlo. Da parecchi anni l’incubo è tornato. Gli attacchi alle greggi sono frequenti, i danni tanti e la rabbia altrettanto.
E’ tuttavia un incubo che solo formalmente si chiama lupo. Ma che in realtà quasi mai ne ha le fattezze, né le sembianze. E neanche la natura. Potrebbe chiamarsi bobo, ammazzabubbù, sarchiapone, uomo nero, orco. Voglio dire che nella figura arcana del lupo e nella parola che lo rappresenta il mondo rurale vede incarnata infatti, e oggi ancora più sottilmente, la minaccia latente e inafferrabile che in generale mina le certezze degli agricoltori, ne vanifica gli sforzi, ne rende fragili le speranze, ne accresce l’esasperazione: a volte è il lupo-lupo, a volte sono i cani inselvatichiti (non di rado scioccamente abbandonati dai pastori stessi o dai cacciatori). A volte invece, anzi la maggior parte ed è la peggiore di tutte, è quel mostro tentacolare e bastardo che è la burocrazia, figlia illegittima di mancanza di buon senso, di collusione di interessi e di inefficienza. Un mostro che del lupo e di ogni altra cosa “naturale” si nutre, trasformandola in scusa per creare odissee di carte e tempo perso.
Perché quello che scrive Mainardi è sacrosanto. Tanto sacrosanto che andrebbe esteso dai lupi a tutti i generi di una fauna selvatica (penso ad esempio a cinghiali e caprioli, che radono letteralmente al suolo vigneti, oliveti e piantagioni, per non parlare degli incidenti stradali che provocano), causa di motivato rancore e di aperta ostilità da parte della gente di campagna.
Mainardi dice infatti che la soluzione sarebbe semplicissima: prendere atto che i cosiddetti “predatori” fanno parte della natura e dell’ambiente (esattamente come la pioggia, il sole, l’ortica, la polvere) e che, essendo interesse della comunità mantenerli onde assicurare l’equilibrio ecologico, risarcire congruamente e rapidamente chi dovesse subire danni dalla loro presenza. Punto. Sottolineo la congruità e la celerità, in quanto sono proprio questi i punti dolenti della prassi in atto. E di mio aggiungo anche la sburocratizzazione e la esemplare punizione dei furbi, tanto per scoraggiare le solite pratiche truffaldine.
Mi spiego. Se oggi un pastore subisce un danno per l’attacco di un predatore, la cosa migliore da fare, o meglio la meno dannosa, è – una volta finito di smadonnare – prendere l’escavatore e sotterrare alla svelta, senza farsi vedere, la carcassa degli animali. Magari dopo aver rispolverato, in vista dell’attacco successivo, la doppietta appesa al camino.
Sì, perché il percorso burocratico-risarcitorio che altrimenti dovrebbe seguire è a dir poco grottesco. Innanzitutto ti risarciscono “a capo”. Cioè ti pagano un tot per ogni capo di bestiame ucciso. Ora, a prescindere dalla congruità del risarcimento, il fatto è che il danno provocato da un’aggressione di lupi o di cani è ben più grave della semplice perdita di qualche pecora o capra. Ci sono decine di animali feriti, altri fuggiti, altri che per lo shock smettono di produrre latte. Insomma una cosa seria, vasta e duratura. Ma non basta. Per “disfarsi” della carogne il povero allevatore mica può sotterrare, come l’istinto suggerirebbe, i poveri resti. Magari. No, deve chiamare a sue spese una ditta specializzata in smaltimento di rifiuti speciali, quali le carcasse di animale sono considerate dalla legge, e quindi pagare di tasca fior di quattrini, oltre a riempire un’estenuante quantità di fogli, dichiarazioni, formulari, etc. Morale: oltre al danno, la beffa e il mal di fegato. E poi ci sono i costi di recinzioni sempre più alte e di offendicula spesso soggetti, per essere installati, ad ulteriori pastoie burocratiche, quasi che si trattasse di potenziali abusi edilizi.
Ce ne sarebbe abbastanza per fermarsi qui, ma proviamo a guardare anche oltre.
Intervenendo in proposito, il presidente della Lipu, Fulvio Mamone Capria, ha sottolineato che fino al 70% delle richieste di risarcimento danni avanzate dagli agricoltori si ricollegano ai danni causati dalle tre specie “reimmesse” sul territorio nazionale per uso venatorio (cinghiali, lepri, fagiani) e non ai danni procurati dai predatori. Roberto Piana, coordinatore nazionale delle Guardie della LAC, a proposito degli abbattimenti dei cinghiali ha evidenziato invece come i cacciatori siano in effetti gli unici beneficiari dei piani di abbattimento. Piani che quindi, secondo la LAC, non solo non risolvono il problema, ma lo mantengono.
Se a questo aggiungiamo che un’indagine conoscitiva sui danni causati dalla fauna selvatica diffusa dalla Commissione Agricoltura ammette che, in materia, da un lato si sono commessi degli errori storici, ovvero l’immissione di animali a scopi venatori, ma che dall’altro non esistono dati sufficienti per il reale computo dei danni, se ne potrebbe ricavare che non c’è alcuna conferma dell’esistenza in Italia di uno specifico “problema lupo“. C’è casomai il problema della tutela degli agricoltori dai danni degli animali.
Se però per risolverlo, come ha detto il presidente del WWF Stefano Leoni, si fa ricorso all’unica normativa oggi esistente in materia faunistica, ovvero quella sulla caccia, che in sostanza regolamenta le modalità secondo le quali sparare alla fauna stessa, se ne potrebbe concludere che forse il vero cuore del nostro problema è la “questione cacciatori”.
E forse il cerchio si chiuderebbe avendo il coraggio di affrontarlo nei suoi termini reali. Cioè che la gestione della fauna e del suo contenimento, inclusa la limitazione dei danni all’agricoltura, non può essere affidato a chi ha tutto l’interesse a mantenere nell’ambiente la quantità di fauna minima necessaria per essere periodicamente chiamato ad abbatterla.