di URANO CUPISTI
Nel 2008, dopo innumerevoli rinvii dovuti all’instabilità politica per il conflitto tra armeni e azeri in Nagorno Karabakh, riuscii a visitare l’Armenia. Molte la ragioni del viaggio. Ma, in particolare, uno.

 

Ecco alcune delle motivazioni che, scartabellando le note dell’epoca, determinarono la mia mia scelta: il Monte Ararat, Noè e il vino, la piana di Erevan, il Monastero di Khor Virap, Garni, il Lago Sevan, la follia dei piani quinquennali sovietici, i personaggi come Charles Aznavour, Alain Prost, Youri Djorkaeff, Alain Manioukan.

E infine lui, il Cognac Ararat, il distillato preferito da Winston Churchill.
Gli esperti non s’indignino: non è una bestemmia chiamare cognac un liquore che formalmente non lo è, essendo appunto fabbricato in Armenia e non nell’omonima regione francese. Ma prima lo chiamarono così i comunisti dell’URSS, infischiandosene di brevetti e dei diritti sulle denominazionmi geografiche dei medesimi, e dopo, nel post regime, continuò il colosso francese Pernod Ricard, acquirente della Distilleria Yerevan Brandy Company, sostenendo che la dicitura era ormai identitaria della nazione e pertanto “acquisita”.
Raggiunsi Erevan via Vienna e subito mi fiondai sull’Ararat, il “luogo di Dio” coi suoi 5.165 metri di altezza. Era un luogo presente da sempre nei miei sogni, anche grazie all’educazione cattolica ricevuta durante la fanciullezza: la vicenda dell’Arca (tornata d’attualità proprio in questi giorni con la scomparsa del suo mancato “scopritore“, l’ingegnere italiano Angelo Palego) e del patriarca Noè, raccontata magistralmente dal mio educatore francescano Padre Carlo Mauro, fu per me uno stimolo fondamentale per fantasticare sul futuro viaggio. E le pagine della Genesi mi tornarono spesso in mente nella mia più laica giovinezza.
In particolare quel passo (Genesi 9 : 20 – 21), ambientato nella piana di Erevan dopo il diluvio e bonariamente censuratomi dal prelato: “Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda”. Insomma era alticcio, nudo e accompagnato pure, con implicazioni conseguenti. Inevitabili le maliziose fantasie. Una volta sul posto, non potei fare a meno di ripensare a come quelle scene purgate allora ai miei occhi di bambino, sarebbero state orgiasticamente rappresentate oggi.
Anche il Monastero di Khor Virap era ricorrente fino all’ossessione tanto nelle cartoline quanto sui libri consultati prima della partenza. Mi intrigava il suo legame con San Gregorio l’Illuminatore, tenuto per molti anni prigioniero nelle segrete monastiche. Si rivelò un luogo bellissimo, dominante su vigneti rigogliosi e pascoli, sotto il continuo volteggiare in cielo delle cicogne. Lo raggiunsi con un marshrutka, un minibus pubblico, calandomi per sessanta metri nella cavità che aveva funto da cella per il prigioniero.
Dopo Khor Virap, sul mio taccuino compare il nome di Garni, distante appena mezz’ora di marshrutka da Erevan:  fu un’immersione nelle poche vestigia ancora presenti di un santuario pagano legato all’antico culto del Dio Elio, cioè il Sole. Nulla di Romano, come potrebbe a prima vista sembrare: si trattava invece di una cultura precedente la cui fine potrebbe essere datata intorno al 300 d.C., quando l’Armenia si convertì al Cristianesimo.
Poi fu la volta del Lago Sevan, il più grande del paese, posto ad un’altezza di circa 1900 m s.l.m. Le sue acque avevano un colore cangiante, dall’azzurro chiaro al blu intenso, e riflettono un paesaggio affascinante, sormontato dai grandi picchi vulcanici coperti di neve. Già detto Mare di Gegham, gli armeni lo consideno sacro e santo e lo chiamano Lago Nero (Sevan vuol dire nero infatti). Per capire perché, insieme alla mia giovane guida mi fermai in un locale e attaccai bottone con un anziano signore, al quale non parve il vero di raccontarmi la storia di fronte ad una tazza di caffè bollente alla turca.
Mi raccomando, però: non pronunciare mai la parola leggenda perchè per questa gente si tratta di verità indiscutibile“, mi avvertì con un sussurro la guida.
Gli abitanti della città di Sevan, attaccati dagli arabi – cominciò il vecchio – attraversarono il lago gelato e si rifugiarono sull’isola, nel monastero di Sevanavank, dove si barricarono pregando Dio di salvare le loro vite. E infatti quando gli arabi tentarono di attraversare il lago, il ghiaccio cedette facendoli affogare tutti“.
Ok – dissi io – ma perché lago Nero?“.
Perchè gli arabi affogati che ne coprivano la superficie erano tutti vestiti di nero“, rispose.
Rimasi lì due giorni per scoprire i magnifici monasteri medievali: lo Sevanavank, lo Hayrivank e il Noraduz, con il suo cimitero di khachkar, le tipiche croci armene di pietra, delle quali possedevo una interminabile collezione di foto.
L’invasione delle truppe bolsceviche e l’ingresso dell’Armenia nella Repubblica Transcaucasica avvenne il 4 dicembre del 1920. Bisognò attendere il 1936 perchè nascesse la Repubblica Socialista Sovietica Armena e iniziassero i folli piani quinquennali che snaturarono le città e le campagne con insediamenti industriali giganteschi. Uno scempio ambientale di cui solo vedendo di persona i resti si poteva rendersi conto. Il mio fu un girovagare inquieto e angosciato nei paesi-dormitorio, sorti come funghi attorno alle fabbriche con la classica architettura dei casermoni sovietici.
Tentai di ritarmi un po’ su il morale mettendomi sulle tracce delle celebrità armene, alle quali ancora in vita erano state dedicate strade e piazze importanti nella capitale Erevan, all’epoca poco attraente per via dei tanti cantieri che ancora segnavano la transizione tra la città comunista e quella occidentale. Nei locali, nelle hall degli hotel e perfino sugli edifici governativi mi imbattei in gigantografie di Aznavour, di Alain Prost al volante della Ferrari, della mitica rovesciata del di Yuri Djorkaeff con la maglia dell’Inter e delle creazioni di Manioukan. Una sera, in albergo, approfittando di un pianoforte in sala da thè, accennai alla melodia di “Com’è triste Venezia“, ricordando Charles Aznavour con il suo vero nome, Chahnourh Varinag Aznavourian. Mi fecero sentire uno di loro. Una soddisfazione che celebrai con l’agognatissima visita, bevute e acquisti al cognac shop compresi, alla mitica distilleria e al suo museo, degna conclusione del viaggio.