Tu per anni affidi i tuoi pochi risparmi a un ente di previdenza integrativa, affinché li gestisca in vista di tempi peggiori. E loro – tra telefonate, inchini e infinite smancerie – sono assai melliflui finché si tratta di incassare i tuoi versamenti periodici.

Poi i temuti tempi peggiori arrivano e per te viene il momento di riscuotere.

Ma loro a questo punto non rispondono, perché non devi disturbare il manovratore, e solo per avere un riscontro ti costringono a mandare non una PEC, ma due, dopo aver perso ore a individuare in rete l’indirizzo giusto e non essere poi accusato di aver sbagliato destinatario per chiedere ciò che, chiariamolo, ti è dovuto.

E allora i toni affettati e gli scappellamenti plateali di prima si asciugano nell’algida richiesta, inviata via mail, della compilazione di un modulo di 9 (nove) pagine scritto in caratteri microscopici, pieno di sigle incomprensibili, assunzioni di responsabilità misteriose da firmare, attestazioni surreali, dichiarazioni grottesche da fare.

Il tutto non solo senza uno straccio di spiegazione, ma nemmeno un riferimento, un nome, un telefono al quale rivolgersi per chiarimenti.

So già la giustificazione che mi offriranno: ce lo impone la legge.

Risponderò loro che la professionalità e la correttezza impongono invece di assistere il cliente che per decenni si è fidato di te, con ciò consentendoti peraltro di guadagnare sul servizio, visto che non si parla di beneficenza.

Naturalmente questa sarà solo la premessa del mio cordialissimo vaffa finale.