E’ mancato Daniel Thomases, uno dei grandi del giornalismo vinicolo. Ilare e irascibile, a un Benvenuto Brunello di tanti anni fa lo ripescai a notte fonda da una zanella dov’era caduto rompendosi un femore e forse gli salvai la vita. FUNERALE GIOVEDI’ 5/3 ore 12, Cimitero Ebraico di Caciolle, Firenze.

 

Caro Daniel,
le anteprime toscane si sono concluse da poco e, non vedendoti, con discrezione ho chiesto a qualcuno se avesse tue notizie. Ma nessuno sapeva. Mancavano un po’ a tutti i tuoi ruggiti quando in sala, alzandosi il brusìo oltre la soglia, gridavi col tuo accento ameregano “Stiamo degustandou!“. Ti abbiamo tante volte preso in giro per questo, ma erano meleggiature piene di affetto e di rispetto per chi, come te, aveva uno spessore professionale da guardare con deferenza.
Ogni volta che ti vedevo, e che andavo a Montalcino, non potevo poi fare a meno di ricordare quella sera che, durante un Benvenuto Brunello di millant’anni fa, lasciai la cena di gala per recuperare non so che in macchina. Era un freddo birbone, certamente sotto zero, e c’era un buio pesto. Giusto una fioca luce sul sentiero verso il parcheggio. Con me c’era un amico comune, Davide, rammenti?
Usciamo sul selciato scivoloso del castello, ben attenti a dove mettevamo i piedi. Poi sentiamo un lamento. Una specie di rantolo. Subito dopo, un altro. Veniva dall’angolo più oscuro del cortile che fiancheggiava il sentiero pedonale. Ci avviciniamo. C’era una buca, una specie di fossato profondo quasi un metro. E in fondo c’eri tu.
Chissà da quanto tempo eri lì. Ti eri fatto male e caduto peggio, non riuscivi a uscire. Con una temperatura come quella, un altro po’ e avresti rischiato di lasciarci le penne.
Ti abbiamo tirato fuori, non senza fatica. Ansimavi, eri dolorante. Non so perchè fossi finito proprio lì. Forse il fondo gelato, forse l’oscurità, forse un bicchiere di troppo, forse tutte le cose insieme.
Comunque sono rimasto con te mentre Davide è andato a chiedere aiuto.
Qualcuno è sceso, ma non in troppi e senza troppa fretta. Ti hanno messo addosso il cappotto mentre, in piedi e col femore rotto, come si è saputo in seguito, aspettavi l’ambulanza. Che è arrivata dopo un’ora e mezza. Nel frattempo un certo trambusto, neanche tanto però, c’è chi viene a vedere e poi torna a cena, qualche collega che resta lì a sostenerti, il presidente del Consorzio si trattiene un quarto d’ora e poi si dilegua.
Alla fine ti portano via. Fai in tempo a lasciarmi le chiavi della tua macchina, pregandomi di riportarla al tuo albergo. Lo feci e percorrendo quei pochi km mi chiesi più volte come, all’ospedale, non ci fossi finito prima al volante di quella carretta.

La cosa ebbe, credo, anche uno spiacevole strascico giudiziario.

In seguito ci siamo incontrati altre migliaia di volte, salutati con cordialità, abbiamo chiacchierato di vino e non solo. Ma quell’episodio non l’abbiamo mai più rievocato.

Lo faccio adesso. Ed è il mio modo per dirti ciao.