Riflessioni semiserie su una professione allo sbando e un’editoria per sbandati.

Del ciclo: reinventiamoci un lavoro

 

olivetti

Soundtrack: June Tabor & Martin Simpson, “Strange affair”
http://www.youtube.com/watch?v=WVFpMLE6WIo

C’è la collega di lungo corso che, in mancanza di lavoro, si è messa a vendere i ninnoli raccolti nei viaggi di una vita. C’è il giovane cronista che in tribuna stampa segue malinconicamente la partita senza prendere appunti come al solito: “L’agenzia è fallita”, commenta laconico. All’altro offrono 14 euro a pezzo per seguire incontri di basket e scrivere il pezzo in diretta, sapendo che se lui si rifiuta c’è la fila per prendere il suo posto. La caporedattrice mi annuncia via email non solo la chiusura del giornale, ma l’allontanamento del direttore di tre testate dal gruppo editoriale. La giornalista di belle speranze mi comunica che si è messa a fare anche lei pubbliche relazioni (di questo passo, penso, l’editoria finirà per somigliare all’hotellerie superlusso: un addetto per ogni cliente e un addetto stampa per ogni giornalista, del resto dopo il personal trainer e il personal shopper potrà arrivare anche il personal pierre, no?).
Insomma, è un casino. Non una valanga, non una frana, ma un lento, inarrestabile smottamento, un cancro che ti rode da dentro, un’agonia lenta e inesorabile. Ad uno ad uno i giornali chiudono. Se non chiudono, si ridimensionano. Quando non lo fanno, spesso è perché non sono giornali (cioè contenitori di notizie redatti da giornalisti) ma cataloghi pubblicitari in cui il contenuto di informazione è un optional, un orpello superfluo. Il resto sono eccezioni.
Il buffo (buffo?) è che tutti si limitano ad aspettare “che la crisi finisca”. Come se fosse un temporale e bastasse attendere che smetta di piovere affinché tutto torni come prima. Rewind e via. Del resto la gente crede proprio che il mondo funzioni così. Crolla un modello del cosiddetto “sviluppo”? Vabbè, un semestre buio, massimo due, la macchina la compro l’anno prossimo, vado in pizzeria invece che a ristorante così mi sembra di essere più sobrio e adeguato alla crisi e il gioco è fatto.
“La carta stampata è finita” afferma qualcuno che ha l’aria di chi ha capito tutto e la sa lunga. “Il futuro – sottintende – è nell’on line”. Perché, scusate, giornalisticamente parlando qual è la differenza? Che cambia se la rivista-catalogo cartacea diventa un catalogo digitale camuffato da giornale? La notizia resta un optional e il giornalista rimane un soggetto inutile. Chissà, forse gli inserzionisti preferiscono investire in pubblicità in rete e gli editori si illudono che la stessa prenda il posto delle care, vecchie rotative. Buonanotte, allora.
Perfino le differenze tra pubbliche relazioni ed advertising si assottigliano. Prima i professionisti del settore tessevano raffinate tele per allacciare amicizie, rapporti, familiarità, sottili complicità, democristianissimi scambi di favori e di relativi obblighi. Tutto affinché apparisse “naturale” ciò che, in sostanza, era una marchetta, sebbene abilmente dissimulata. Oggi, non più. Le pr si fanno esplicitamente, a tariffa: se ti invito al tale evento, al tale viaggio, alla tale anteprima voglio un ritorno. Sennò, nisba. E che il ritorno sia preventivamente stabilito, non solo per tono e contenuti ma anche per numero di pagine e di foto.
Di quest’andazzo i soloni della deontologia, spesso sindacalisti col culo al caldo e poche righe scritte in carriera, si indignano. Predicano. Rigurgitano massime. Dopodichè si dimenticano di menzionare chi di quest’andazzo è vittima, cioè i giornalisti libero professionisti e non solo, nei loro contratti.
Dunque, da domani che faccio? Vendo la mia raccolta di riviste di viaggio? Mi metto a fare il copy per un’agenzia pubblicitaria? Apro un bar?
Dai, ne parliamo domani tutti insieme in sala stampa.