Quello che qualcuno ha definito “il Giove Tonante dell’enologia italiana” è un tipo estroverso, che dice ciò che pensa. E che giorni fa, incontrando alcuni giornalisti (quorum ego), ha “rilasciato” a sorpresa, per iscritto, una serie di dichiarazioni a proposito di agroalimentare italiano, tutela dei nomi, strategie di marketing, eccetera. Opinioni magari discutibili, ma comunque degne di nota. Eccole. Ovviamente con un nostro commento.

Crisi e mercato globale azzoppano l’agricoltura italiana

La crisi viene da lontano, ha colpito duro e non è colpa dei produttori se li ha colti impreparati non essendo riusciti a prevederla per tempo neppure i premi Nobel dell’economia.
Il consumatore, di fronte alla riduzione del potere d’acquisto, ha abbassato anche la soglia del desiderio, anziché acquistare le eccellenze si è accontentato del buono quanto basta, che costa molto meno. Così dei prodotti tipici italiani a soffrire di più sono stati quelli di fascia di prezzo medio-alta.
Ha invece beneficiato della crisi il falso agro-alimentare, con parvenza italiana ma prodotto altrove, guadagnando mercato sia all’estero che in Italia.
Cosa fare? Sui rimedi i suggerimenti si sprecano.
– FARE PIU’ QUALITA’: ma per vino, olio, parmigiano… la qualità media non è mai stata così elevata.
– PIU’ RAPPORTO QUALITA’ PREZZO: ma si sono ormai fatti diventare buoni anche i vini offerti al pubblico a due euro a bottiglia.
– CHILOMETRO ZERO: è un palliativo, che sprona però i contadini a confrontarsi con il mercato, ad essere più intraprendenti ed aiuta i consumatori a capire di più della stagionalità dei prodotti agricoli.
– ACCORCIARE LA FILIERA: occorre prima che i produttori si uniscano per aggregare l’offerta.
– PIU’ MARKETING: sono ancora troppi quelli che si vantano di non fare marketing. Diffidano della parola, le attribuiscono un significato equivoco, di trucco finalizzato alla vendita.
– NO OGM: il divieto invece va superato. Piuttosto vanno educati gli agricoltori ad essere virtuosi ed i consumatori a riconoscere e premiarne i prodotti attraverso norme di etichettatura adeguate.
– COSTRUIRE DOMANDA: in Italia ci pensano gia’ i produttori, il sostegno pubblico va destinato ai mercati esteri.
– L’EXPORT DIVENTI UNA OSSESSIONE: verissimo, occorre però favorire la crescita imprenditoriale.
– PROTEGGERE I MARCHI ITALIANI sui mercati esteri, combattere la falsificazione: si può, si deve fare di più.
Se la crisi non allenta la morsa qualsivoglia rimedio perderà di efficacia.
Resta la cronica assenza sui mercati esteri della presenza di catene di supermercati (italiani e non) capaci di valorizzare le eccellenze dell’agro-alimentare di casa nostra. Assume grande significato l’apertura di EATALY a New York avvenuta in questi giorni: nella grande mela i migliori prodotti del mangiare&bere italiano saliranno su di un palcoscenico capace di esaltarne valore ed immagine e costruirne domanda.

Un progetto per il futuro

Nella situazione di mercato attuale i più fragili sono i produttori artigiani che costituiscono la stragrande maggioranza delle micro e piccole imprese italiane. Occorrono progetti atti a proteggere e valorizzare il lavoro degli artigiani. Da un anno la discussione s’è accesa attorno al marchio Made in Italy che vuol dire una cosa mentre il contenuto ne svela spesso un’altra. E’ una contraddizione impossibile da eliminare avendo, le aziende che hanno delocalizzato, meritoriamente contribuito all’affermazione del Made in Italy sui mercati internazionali.
Per gli artigiani potrebbe servire di più mettere in cantiere un nuovo progetto: ottenere che il prodotto TOTALMENTE realizzato in Italia abbia la facoltà (non l’obbligo) di essere contraddistinto da un logo, da un simbolo fatto realizzare dal più bravo dei designer italiani, da affiancare oppure no al Made in Italy.
Che comporti l’assunzione da parte del produttore dell’impegno (autocertificazione) di svolgere le fasi di lavorazione INTERAMENTE in Italia, con totalità di materia prima di provenienza italiana soltanto per l’agro-alimentare. Il progetto andrà sostenuto da una campagna di informazione atta ad istruire il consumatore sul significato del simbolo.
Nel progetto vanno coinvolti non soltanto gli artigiani, ma anche le associazioni sindacali e quelle degli esercizi commerciali: l’interesse di proteggere il lavoro eseguito in Italia coinvolge tutti.

Angelo Gaja

Nel tempo della globalizzazione e nell’infuriare (spesso interessato) del dibattito, il concetto di “made in” tende ad apparire sempre più per quello che realmente è, o meglio è diventato: qualcosa cioè il cui significato va, ahinoi, progressivamente evaporando.
Intendiamoci: idealisticamente parlando esso resta un valore-pilastro, un riferimento, un quid pluris da appuntare all’occhiello. Il problema, però, è che ormai quasi nessuno “fa” qualcosa in un posto solo. E, se lo fa, se si eccettua forse il valore aggiunto “morale” che se ne trae, le differenze tra il prodotto “made in” e quello “made elsewhere” si assottigliano comunque sempre di più. Colpa (o merito) della mondializzazione non solo dei mercati, ma soprattutto della mondializzazione delle culture e dei saperi, dell’espansione delle competenze a ogni latitudine e, ammettiamolo, dell’incidenza sempre più forte del fattore-economicità, che rende conveniente (e quindi, prima o poi, possibile) e spesso necessario fabbricare qualcosa in luoghi diversi da quelli ove il “qualcosa” è nato o è stato concepito.
Ove a ciò non provvedano la natura, la tecnologia o l’esportazione del know how (perchè non c’è dubbio che certi climi, o materiali, o contesti non siano replicabili) provvedono la pubblicità e il marketing, capaci a poco a poco – gutta cavat lapidem – di convincere il consumatore che la replica è “quasi” uguale, se non identica, all’originale. Anche perchè, percorrendo il ragionamento il senso inverso, è sovente l’originale stesso, nell’inseguire le esigenze dettate dal mercato e dai grandi numeri che esso richiede, ad “avvicinarsi” all’imitazione: la qualità dell’uno sale, la qualità del secondo scende e le distanze, fatalmente, si accorciano. Insomma non è più la qualità dominante a creare il gusto ma il gusto dominante a “dare qualità” indotta al prodotto. Nel campo del vino, l’egemonia raggiunta dal cosiddetto “gusto internazionale” (nella cui indifferenziazione, destinata alla massa del consumatore medio, pochissimi intenditori riescono a decrittare le sfumature), ne è la riprova.
Ciò non toglie, come chiede Angelo Gaja, che non si possa e non si debba fare il possibile per tutelare le nostre produzioni. Ma il confine tra i diversi casi proposto ogni giorno dall’esperienza pratica è labile. Ed è ben esemplificato da un paradosso suggeritomi tempo fa da un noto fabbricante di accessori di alta moda: a conti fatti, mi chiese, è più “made in Italy” una borsa prodotta fisicamente in Italia e con materie prime italiane da artigiani (e quindi da “teste”, gusto, stile) cinesi o una borsa prodotta tutta all’estero e con prodotti esteri, ma da un maestro artigiano italiano con le tecniche, il gusto, il know how italiano?
Ammetto di non aver saputo rispondere. Sono però certo che tra le ganasce di questi due estremi il made in Italy finora comunemente inteso è destinato a finire stritolato.