Da decenni c’è un numero enorme di giornalisti che, in concorrenza sleale coi colleghi, lavorano gratis. La responsabilità, però, non è loro ma della nostra categoria.

 

Leggo su FB un annuncio, rivolto a giornalisti con partita iva, che propone un compenso di 1,50 euro ad articolo (“news“) a fronte della disponibilità full time a scrivere, da remoto, 5 pezzi al giorno di 250/300 “parole” in materia di attualità e cronaca: guadagno lordo di 7,50 euro al giorno.

Al cospetto della remunerazione proposta la comunità dei colleghi, ovviamente e comprensibilmente, ma sbagliando, s’indigna.

Vorrei quindi fare un passo oltre e porre qualche domanda (retorica).

 

Più che indignarsi verso chi offre, non è il caso di indignarsi con chi, nel caso, accetta e, così facendo, dà un valore irrisorio al proprio lavoro e alla reputazione propria, nonchè nostra?

Al di là della concorrenza sleale (non so come altrimenti definirla) che un giornalista fa a danno dei colleghi accettando somme nulle o simboliche, un’attività così remunerata è da considerarsi giornalistica?

Chi si presta a lavorare in perdita (lo sarebbe anche un compenso da 1,5 euro a riga, anzichè a pezzo) è passibile di denuncia ai consigli di disciplina? E i consigli di disciplina come lo giudicherebbero, visto che l’accusa non sarebbe di accettare compensi bassi, ma dei non-compensi?

Per coltivare un hobby (ossia per coltivare un passatempo gratis) c’è bisogno di iscriversi a un ordine professionale?

E, viceversa, come è possibile che un ordine professionale accetti l’iscrizione di hobbisty che operano gratuitamente?

In che modo tali iscritti superano le periodiche revisioni degli albi?

Se dei dilettanti riescono a iscriversi a un ordine professionale, di quali sinecure o complicità godono?

Bisogna alla fine rassegnarsi a una categoria fluida, ossia a una non-categoria?

 

Ne parlavo già tredici anni fa, ma nel frattempo tutto è peggiorato.