Ho una felpa che mi è carissima e che tuttora puntualmente indosso per sciare, sebbene l’abbia ormai (sigh!) da 21 anni.
Fu uno degli omaggi per i partecipanti a Zell am See e Kaprun, in Austria, alla prima edizione dei WTS, gli World Tourism Games, inverno 1996.
Mi invitò, come componente della delegazione italiana, l’Ente per il Turismo Austriaco. Con me c’erano giornalisti di viaggio, operatori e professionisti del settore, agenti e così via.
Il tutto ci fu presentato come una sorta di “Giochi senza Frontiere” sulla neve: competitivo sì, ma con giudizio. Molto ludico, insomma. E questo fu lo spirito con il quale io e gli altri ci presentammo, ben felici di essere lì.
Le prove sportive, tra eventi e convegni, erano tre: slalom gigante, gara di fondo e triathlon alpino, ovvero una gara mista che prevedeva, sul medesimo anello innevato, 5 km di fondo, 5 in bici e 5 di corsa.
Ovviamente mi iscrissi a tutte.
Clima euforico, posti bellissimi e organizzazione perfetta.
I primi dubbi mi vennero la mattina del gigante.
Era un tracciato vero, molto lungo, ripido, con porte impegnative. Insomma ben diverso dagli slalometti per dilettanti a cui avevo partecipato fino ad allora. I dubbi veri, però, mi vennero dopo, quando cominciai a guardarmi intorno e a scrutare gli avversari. Il primo che notai fu Martin Bell, gigantista britannico fino al 1994 nei top 16 di gigante in Coppa del Mondo di sci. Con una coscia delle sue se ne facevano due delle mie. Insospettito, guardai con più attenzione anche gli altri e, forte della mia passione per quello sport, riconobbi presto, tra i tanti, anche lo stagionato ma ancora gagliardo David Zwilling, campione austriaco arrivato secondo in CdM nel 1974 dietro a Thoeni, e il Konrad Bartelski, anch’egli britannico, già nazionale inglese di discesa libera e protagonista di una terrificante caduta a Megeve nel 1975, a cui assistei in diretta televisiva.
Chiedo lumi e mi dicono: “Ora sono giornalisti…“.
Bene, si parte con la prima manche.
Bell dà 15″ a Zwilling, che si piazza secondo. Gli altri fenomeni a seguire. Io scatto col pettorale 80, su una pista già bucata tipo bob, e verso la ventesima porta volo fuori ma per fortuna incolume. Andò peggio a un mio compagno di squadra, un romano con un paio di sci da 2 metri e 20, che cadde, si fece male e al pronto soccorso fu respinto perchè temevano non pagasse le cure!
Per evitare ulteriori rovesci, noi italiani disertammo allora in massa la gara di fondo, specialità in cui eravamo oggettivamente poco preparati, e ci compattammo in vista del triathlon.
L’intera mattinata fu trascorsa a disegnare strategie e a provare tecniche. Fondamentale quella che, nelle nostre convinzioni, ci avrebbe consentito di rosicchiare alla concorrenza almeno tre secondi nel cambio di scarpe tra la frazione di fondo e quella di mountain bike. Secondi che avrebbero potuto rivelarsi decisivi.
Alle 14 siamo lì tutti ringhiosi per la partenza, guatandoci l’un l’altro.
Saremo stati oltre cento.
Colpo di pistola e via!
Prima che io abbia dato una sola pattinata vedo una sagoma nera che schizza verso l’orizzonte e scompare. Mi informeranno poi che si trattava della vincitrice della medaglia d’oro olimpica di fondo femminile ad Albertville ’94. Anche lei, si capisce, divenuta nel frattempo giornalista.
Ma non c’è da recriminare. Il gruppo si avventa sul tracciato, tra cadute, pestate di code, colpi proibiti, contumelie. I più forti si allontanano presto, io resto invischiato nel plotone che, lentamente, si sgrana. Ben presto perdo cognizione della mia posizione, ho gente davanti e dietro, ma confido sul mio fiato per farmi valere nella frazione in bici. Intanto la leader della corsa mi doppia.
Eccomi al cambio. Chi mi precede ha almeno 20 secondi di vantaggio, chi mi segue una trentina: inutile affrettarsi nella sostituzione veloce delle scarpe, tanto studiata.
Salgo in sella e parto. Calvario: o sei dotato delle gambe di Merckx oppure pedalare è impossibile, perchè la ruota affonda nella neve. Goffi tentativi di scatto alzandosi sui pedali. Cadute mie e altrui. Sconforto misto a ilarità, il tutto per fortuna condiviso tra tutti noi di metà classifica. Dopo un paio di km la solita ex olimpionica mi doppia nuovamente (nb: io in bici e lei di corsa!) e si dissolve. La tappa somiglia sempre più a una ritirata di Russia, i ritiri fioccano, il sudore sgorga, i muscoli dolgono e il fiato è cortissimo.
Cala il sole, i distacchi aumentano e nell’incipiente grigiore mi ritrovo da solo. Ho rinunciato a pedalare, praticamente spingo la bici come se fossi in salita e sporadicamente la cavalco a mo’ di velocipede ottocentesco.
Finisco il secondo giro quando i vincitori sono già sul podio e nell’aria invernale risuonano inni e fanfare tra ali di pubblico plaudente. Mentre lascio la due ruote e comincio a correre, noto che il parcheggio è già semivuoto e che gli spettatori scemano.
Corro ascoltando lo scrocchiare cadenzato delle mie scarpe sulla neve misto all’ansimare del mio respiro. Di colpo mi accorgo del tombale silenzio circostante. “Bene“, penso in piena trance agonistica, “non ci sono inseguitori vicini” e continuo al piccolo trotto. Uno, due, tre km. Solitudine assoluta. A un certo punto a qualche centinaio di metri davanti a me vedo una figura arrancante. “E’ un avversario, devo riprenderlo!“, dico tra me e me. Aumento un po’ la cadenza dei passi. Mi giro: ancora nessuno alle spalle. Bene, ce la posso fare. Pian piano recupero terreno, ma lui a un certo punto si volta e mi vede. Accelera. Io ansimo. Lui pure. Ti prendo. Non mi prendi. Scricchiolare di suole. Affanno. Scatto. Scatta pure lui. Mi volto: nessuno mi tallona. Ultimo km, massimo sforzo, lo raggiungo quasi. Dal pettorale vedo che è un tedesco. Crucco maledetto, ora ti supero. Gli sono a fianco. Mi guarda, lo guardo. Colgo nei suoi occhi che è allo stremo, ma lui legge la stessa cosa nei miei. Pensiero reciproco: provo a passarlo, rischiando di crollare e di perdere posizioni, o mi accontento? Intanto i metri si accumulano. Quattrocento all’arrivo, sempre fianco a fianco, testa rovesciata all’indietro a caccia di aria. Lui ha gli occhi fuori dalle orbite, io sto per esalare l’ultimo respiro. Lui si volta indietro, io idem, ma non c’è nessuno. Duecento metri. Lui mi guarda. Io lo riguardo. Scocca un’occhiata di tacita intesa: pace! Gli tendo la mano, lui la prende, tagliamo il traguardo ex aequo. tra il giubilo immaginario degli astanti. E mentre stramazzo, già pregusto i complimenti per il bel gesto sportivo compiuto. Magari, vagheggio, ci scappa un riconoscimento, una menzione speciale. Tendo pure l’orecchio per intercettare un applauso, una voce, un incoraggiamento. Ma nulla. Solo il suono del respiro affannoso e dello scambio di pacche sulle spalle col teutonico.
Resto catatonico per non so quanto. Poi alzo lo sguardo.
Il sole sta ormai tramontando. Nell’arena non c’è più nessuno: nè atleti, nè pubblico, nè organizzatori. Deserto assoluto. Dalla cima di una scala, dove sta smontando gli ultimi festoni, un accigliato elettricista mi fa un gesto. Non capisco se è di dileggio, di saluto o di “sbrigati!”. Capisco di essere arrivato, come si dice, “dopo la banda“. Ma parecchio, parecchio dopo.
Il tedesco è scomparso. Al parcheggio solo un pulmino di atleti spazientiti in attesa (di me) da un’ora e un’auto che sta per partire. La inseguo che già si muove. Al volante, l’ultimo dei cronometristi. Lo blocco, gli consegno a forza il pettorale, gli spiego a gesti che sono arrivato in fondo e pretendo che mi inserisca in classifica. Dai suoi segnali capisco che mi dice che sono fuori tempo massimo. “Scrivilo pure, ma mettimi in graduatoria“, gli faccio intendere con mimica inequivocabile e fumando di sudore, mentre la temperatura precipita a vari gradi sotto zero. Lui prima bofonchia, poi esegue. Io sbircio la tabella: sono nono. Nono?!? Sì, nono su non so quanti, ma tanti. Fuori tempo massimo, ultimo ma nono classificato. Grazie al ritiro di tutti gli altri, è ovvio. La sera, a cena, dalla bacheca rubo il foglio con la graduatoria. Devo averla ancora, da qualche parte.
Adesso capite perchè non mi separerò mai da quella felpa.
