Ci sono momenti che sai benissimo arriveranno, ma ti piace constatare che non arrivano mai. Poi le cose accadono. E tutto di colpo appare normale.
Sono di nuovo a NYC, dopo alcuni anni. Grandi aspettative, curiosità, elenco di cose da fare e vedere destinato a rimanere ampiamente lacunoso. In lista: concerto di Willie Nile al Watercolor Cafè il 17/11, vasto acquisto di dischi ovviamente e soprattutto il George Schneeman’s Memorial nella chiesa di St Marks Place l’11/11.
Dire che questa è la principale motivazione del viaggio non sarebbe corretto. Questo viaggio avrebbe dovuto essere fatto molto prima. Se oggi siamo qui, è per rimediare. Forse per espiare.
George è stato un artista che sarebbe banale definire grande, visto che pochi lo conoscevano fuori dalla cerchia della cosiddetta St Marks poetry. Ma è stato davvero un grande. Trasversale. Puro. Ha attraversato per intero l’era del post beat, ha solcato gli anni ’70, è sopravvissuto agli ’80, nei ’90 è tornato nella campagna senese – dove aveva vissuto intensamente, da “contadino”, dal 1960 al 1967, apprendendovi i segreti della lingua e dell’anima rurale – riappropriandosi della propria esistenza e sdoppiando così la sua vita, il suo tempo, la sua mente tra l’East Village e le Crete Senesi. Tra quelli che conosco, solo Federigo Tozzi era capace di percepire le intime vibrazioni delle Crete come George. Nei suoi paesaggi, dipinti con una mano nervosa, quasi frettolosa, come se il pennello rischiasse in ogni momento di perdere il segno tracciato dagli occhi e dalla mente, sembra di riconoscere e di vedere il “pioppi selvatici” tozziani, le cui punte vibrano al vento “lungo le sponde della Tressa”.
A San Giovanni d’Asso, il paesino in cui aveva comprato casa lasciandola esattamente nello stato fuori dal tempo in cui l’aveva lasciata la vecchina che gliela aveva venduta, nessuno lo conosceva come un artista. Giorgio era Giorgio: nè l'”americano”, nè il pittore, nè George. Solo Giorgio, uno di loro per definizione, per normalità anzi, uno affine, con cui far veglia fino a tardi parlando con la saggezza e la lieve gravità di un capoccia nell’aia, uno a cui dare e da cui farsi dare una mano, uno che si divertiva a campare facendo il giardiniere nei giardini degli altri, ma senza far sorridere nè apparire patetico o eccentrico.
Dicono che domani sera ci saranno 300 persone a ricordarlo, tutti gli amici poeti di lui, “a painter amongst the poets”, artisti, vicini di casa. Che poi sono le stesse persone: tutti fossili – eppur vivi – di una stagione di cui loro per primi fanno forse fatica a rendersi conto compiutamente. Gente che continua a vedersi e frequentarsi sebbene non i lieviti, ma il palcoscenico su cui essi erano destinati ad agire si sia esaurito da tempo e i lampioni irrimediabilmente spenti.
Oggi, intanto, visita al magazzino dove George aveva stipato centinaia di lavori. Atmosfera vagamente tombale. Efficienza polverosa e slabbrata come solo l’efficienza newyorkese sa essere: sordida ma inesorabilmente funzionante. Quadri tutti imballati, ordinati, catalogati. Nello stile anarchico di George, naturalmente. Grandi tele, grandi nudi, ritratti di famiglia e di amici, seduti sulla medesina sedia di legno comprata a 7 dollari da una fabbrica in chiusura. Bianchi dominanti e tinte pastello, capaci di essere molto americane nei dipinti newyorkesi e assolutamente senesi, quasi trecenteschi, nei paesaggi delle Crete. Prospettive degne di un Piero della Francesca cubista.
Non si sa ancora che ne sarà. Se qualche museo ne comprerà alcuni, o se invece saranno venduti privatamente. La sensazione è che a lui non importi, o non sarebbe importato, quello che accadrà. Da vivo pareva rassegnato (ma rassegnato non è l’espressione giusta, perchè in lui non c’erano nè rimpianto, nè rancore, nè rammarico, nè risentimento) al fatto che il suo lavoro fosse destinato a rimanere soprattutto suo e quindi, in qualche modo, a seguire il suo destino.
Certo che è difficile accettare l’idea che si dissolva l’opera di chi ha saputo interpretare così intensamente lo spirito letterario della città, assecondandone il disincanto e ritraendone i cantori.
La sua casa bohemienne è rimasta identica a come lui la prese nel 1969, un’isola assoluta in un quartiere dove ogni giorno sparisce un pezzo dell’East Village e ne nasce un altro, diverso, commerciale, lussuoso. George Schneeman era un fossile e al sua casa una vestigia. Ne andava orgoglioso. Ne ridacchiava, compiaciuto un po’ della sua fortuna e un po’ della sua sfacciata furbizia. Attendeva che lo buttassero fuori, George, forse confidando di non vedere quel momento per avere il privilegio di poter ricordare per sempre l’East Village come lo aveva conosciuto. In un modo o nell’altro, c’è riuscito.
Davanti a questo si rimpiccioliscono di colpo i fasti marketing oriented della nuova Highline, del New Museum e della Bowery che risorge. O, che scompare. These are “the streets of New York” (Willie Nile).