di URANO CUPISTI
Fuggito in Uaz dalla gabbia rossa d’ideologia e nera di carbone di Ulan Bator, il nostro affronta finalmente la Mongolia vera: caccia con l’aquila, campi di ger (le yurte mongole), tribù nomadi, sterco per combustibile. Ma anche lì i tempi stavano cambiando…
Scappai dalla capitale a bordo di una Uaz condotta dalla mia guida personale Medgui, ribattezzato “Non So”.
Meta: la Mongolia vera, quella descritta da Marco Polo, con l’infinito dei deserti e delle montagne, a conoscere gli “uomini renna” chiamati Tsataan nel nord del paese, ai confini con la Siberia, gente di discendenza turca, un po’ maomettani ma con infiltrazioni sciamaniche. Lì, mi disse un capo tribù, il governo avrebbe costruito un presidio con una scuola e un distretto medico, il futuro villaggio di Tsagan Nuur.
Ma si diceva della Uaz. O meglio la Uaz mongola, simile a quella russa ma molto più spartana, di colore invariabilmente triste, fatta di lamiera pesante.
Fu la mia inseparabile compagna per tutto il viaggio. Le strade non esistevano, la segnaletica neanche e non è stato raro percorrere chilometri su chilometri senza incontrare anima viva. Provai la capacità degli autisti mongoli di orientrarsi nel nulla con la Uaz.
Riporto dal mio moleskine: ”A un certo punto, nella steppa sconfinata in mezzo al nulla, senza alcun riferimento, Medgui voltò a destra, come ad un bivio. La destinazione di un campo di Ger era là, a circa 30 Km”.
Nei Monti Altai partecipai alla caccia con l’aquila nel Parco Nazionale dello Tsambagarab dove d’inverno si raggiunge mediamente i -40°. In quei luoghi ancora vige la legge della natura: la carne delle prede agli animali e le pellicce agli uomini, per scaldarsi. Una tradizione millenaria, pare risalente all’età del bronzo, che ancora oggi viene tramandata da padre in figlio. Nel mio caso da una giovanissima figlia di un capo della comunità Turkic-Kazaki, fiera di far sopravvivere l’identità del suo popolo di nomadi e cacciatori.
Cacciatrice e aquila: tutt’uno. Capirsi con uno sguardo, il rapporto strettamente personale con il proprio rapace.
Ed infine il Deserto del Gobi, con i veri mongoli, nomadi, che si spostano continuamente da una pozza d’acqua ad un’altra distante decine e decine di chilometri, insieme ai propri animali, nel deserto pietrificato, a volte sabbioso con alte dune, a volte steppa infinita.
Gli animali. In prevalenza cavalli, asini, cammelli, yak, pecore e montoni. L’incontrai in carovana a passo lento con grossi carichi che altro non erano che i materiali per costruire le loro case, le Ger o Gher, simili alle yurte siberiane.
Scelto il luogo dell’accampamento, i giovani circoscrivono sul pietrisco figure geometriche ormai imparate da tempo: il grande cerchio che delimiterà la ger, i rettangoli dove sarà costruito il recinto degli animali, la piccola baracca con tanto di buca, adibita alla privacy. Poco più lontano il macello dove sacrificare gli animali destinati al sostentamento. Riti arcaici eseguiti dagli anziani con cerimoniali al limite della spiritualità.
Le donne, montata la porta di legno d’ingresso alla ger sempre rivolta a sud, intarsiata e multicolore, provvedono all’arredo dell’interno, con l’indispensabile per vivere, con l’immancabile angolo della preghiera, l’otre in pelle per contenere il latte fermentato di cammella adatto per il formaggio Airak e la stufa posizionata al centro.
È compito loro raccattare lo sterco animale, lavorarlo a mano, costruendo dei mattoncini e lasciarli essicare. Sarà il combustibile per il fuoco sia per cucinare che per riscaldarsi.
Ho visitato il deserto del Gobi di luglio dove di giorno abbiamo superato i 40° e la notte scesi a 4°. Escursione termica incredibile. Il calore della sera e della notte, se pur provocato da sterco essicato, è indispensabile. Credetemi, dopo un giorno ci si abitua.
i giovani si preparavano alle gare di tiro con l’arco. Figure indemoniate che volteggiavano sulle selle in corse sfrenate al galoppo.
Non di rado ho incontrato moglie e marito con alcuni figli a bordo delle moto russe Ural con o senza sidecar, magari con una pecora a traverso sul serbatoio. Percorrendo piste inesistenti ma a loro conosciute, andavano verso i piccoli centri ai confini del deserto, a barattare l’animale per un paio di scarpe o vestiti per i figli.
E una sera, fuori dalla ger, mi capitò di ascoltare il silenzio, sospeso tra terra e cielo mentre mandrie di cavalli selvaggi, con passo lento, andavano là dove sapevano della presenza dell’acqua.
Ma l’isolamento secolare era terminato. La mia presenza lo dimostrava. I giovani mi chiedevano i dollari mentre gli anziani con i loro sguardi avevano iniziato a capire che, da lì a poco, i tempi sarebbero mutati e l’urbanizzazione li avrebbe coinvolti.
Alla fine mi sono ritrovato a passeggiare nella grande piazza centrale istituzionale di Ulan Bator: Sùhbaatar, dove a 360° rileggi la storia antica e moderna della Mongolia. Il Palazzi governativi (parlamento compreso), al centro la statua di Damdin Sùhbaatar a cavallo, il condottiero che portò all’inizio del ‘900 all’indipendenza e al quale è tutt’ora dedicata la piazza e sul lato nord la statua di Chinggis Khan (Gengis khan), l’eroe di tutti i tempi, sopravvisuto al regime “perché amava il suo popolo”.
Medgui, in silenzio, mi portò all’aeroporto.
“A che ora, di preciso, ho l’aereo?“. E lui: “Non so”.