Anche Maria Teresa Montaruli, “la Montaruli” per i colleghi, ci ha lasciato. Ilare e spigolosa al contempo, caustica e acuta, da tempo si era data per lavoro e piacere alle due ruote. Con lei se ne va un altro pezzo del giornalismo di viaggio militante che fu.
Non posso dire che fossimo amici, almeno in senso stretto. Ma ci conoscevamo, ci stimavano e da oltre trent’anni condividevamo lavoro, ambiente, redazioni. Incontrandosi, ci salutavano con affetto e ci scappava qualche battuta. O le solite ironiche, rassegnate riflessioni sulla fine del nostro mondo, quello dei freelance d’antico pelo.
Costituivamo insomma i membri di quelle comunità non dichiarate che una professione in comune e la lunga conseguente frequentazione di un medesimo ambiente creano. E che, col tempo e nonostante le scarse occasioni di scambio, si consolidano, a dispetto dell’individualismo marcato, a volte perfino un po’ patologico, che spesso è il carattere distintivo della categoria. Ossia di chi fa la nostra professione.
Maria Teresa Montaruli e io, insomma, abbiamo a lungo percorso un itinerario al tempo stesso convergente e parallelo nel settore dei giornalisti di viaggio.
Fino quando, dopo una malattia che, ho poi appreso, combatteva da anni, la Montaruli è mancata.
Questo è il mio secondo pezzo scritto di getto in due giorni su un collega scomparso e, onestamente, verrebbe da chiudere subito il sipario, ma ancora non voglio farlo.
Non prima di aver ricordato almeno le sue note capacità professionali e il suo carattere non facile, a volte spigoloso ed altre perfino sfrontato, necessario e forse indispensabile per chi vive in una temperie competitiva e insidiosa come la nostra. Ma MT aveva anche un versante ridanciano, godereccio e allegramente orgoglioso della sua puglitudine.
Da qualche anno si era data, per lavoro e per piacere, alla bicicletta. E come al solito si era disimpegnata bene.
Maria Teresa aveva poi, aggiungo, un’età in cui l’esperienza pesa ma la pensione è ahinoi ben lungi da arrivare. E lei aveva pedalato a lungo sulle strade perigliose del mestieraccio.
Insomma, non era il momento di morire, ammesso che ne esista uno. E invece è successo.
Anch’io, come tanti che assai più di me l’hanno frequentata e le hanno voluto bene, sono qui un po’ smarrito a farmi domande.
Anni fa decisi, di fronte alla falcidia che l’inesorabile anagrafe imponeva a tanti eroi della mia gioventù, di non dedicare loro mai più obituaries. Ma la prospettiva di dover cominciare a fare lo stesso per i colleghi mi inquieta parecchio.
Vale atque vale.