di FEDERICO FORMIGNANI
E’ noto che l’ambiente della malavita, la cosiddetta mala, ha ovunque un proprio gergo. Particolarmente ricco è quello milanese che, chissà perchè, ha pure qualcosa di letterario.
I fratelli Visconti Venosta, milanesi, recatisi per affari a Napoli intorno al 1860, vennero scambiati per inglesi: usavano la lingua di Carlo Porta, naturalmente, ma questa suonava del tutto “foresta” agli orecchi dei buoni partenopei. Non a caso, quindi, negli ambienti un po’ particolari della “mala” padana, il dialetto veniva chiamato babelino (piccola Babele).
La mala milanese e del nord in genere si muoveva nell’ambito di un mondo tutto suo e i personaggi più disparati e caratteristici animavano questo straordinario sottobosco umano. Noti studiosi quali Lombroso, Niceforo e altri non hanno mancato di marchiare a fuoco la pericolosità dei delinquenti presi in esame (questo all’inizio del secolo scorso), ma il mondo della mala ambrosiana era composto in prevalenza da “vagabondi, fannulloni, mendicanti, ladri, vittime dei furti, truffatori”.
La Milano dell’Ottocento, teatro vivo dei drammi di Carlo Bertolazzi, ha i masciàder (venditori di stringhe, spilli, bottoni, aghi e bindelli) e i trabócch (girovaghi, finti storpi) che chiedono la carità: voce questa, che è l’apocope della milanese trabóchell (trabocchetto). Va da sé che il “parco umano” rappresentato da questi personaggi che vivono ai margini della società sia dei più eterogenei.
Accanto ai fescion (fannulloni eleganti) voce che Carlo Dossi fa risalire a quella inglese fashion (moda), trovano posto i ligera, vocabolo molto impiegato che deriva da ligér (leggero, fatuo) ma che definisce in questo caso individui asociali e vagabondi che vivono d’espedienti. Stesso significato ha la parola baltrescant, termine che Paolo Valera nel suo libro “Milano sconosciuta” (1876) fa risalire a baltresca (altana, loggia aperta sul tetto) che a sua volta proviene dal vecchio lombardo bertesca (casotto, torretta): personaggi abituati a dormire all’aperto o, in milanese, alla serena (sotto le stelle!). Scendendo nella scala dei valori, troviamo lo spadaccin (mendicante): i buoni a nulla, i poveri di spirito, vengono chiamati casciavit (cacciaviti), pelabrocch (letteralmente: tosa cavalli, ronzini) e anche pistola, termine entrato in lingua da tanto tempo. Gli sciocchi, i semplici, fruiscono di svariati aggettivi: gavée, fasàn, balengh, ambroeus (ambrogio). Infine i barboni, detti lendenón da lendena (uovo di pidocchio), quindi pidocchiosi, miserabili, straccioni cadenti chiamati anche, con il termine più che eloquente di perdaball.
Passando alla malavita un po’ più “robusta”, ecco la prima parola, che risale al milanese dell’Ottocento: baloss (birbante, furfante), nome che i contadini del contado, ricorda Cherubini nel suo vocabolario, davano agli individui che chiedevano asilo per la notte, richiesta in genere accettata per il timore di più pesanti ritorsioni! Altro termine bardassa, simile al francese bardache: un ragazzo di malaffare, un giovane mariuolo, che trovava riscontro nel sacchettista (sacchett, borsellino); “…un elemento furbo a soli dieci anni”, precisa Valera. Il biscela, al contrario, è il bulletto, il gradasso; biscela sta per “ricciutello” ed è voce adattata ai ribaldi – pare – da quando il Manzoni descrisse i “bravi” di Don Abbondio muniti di un vistoso ciuffo di capelli. Per chiudere con la “mala” dei giovani, c’è anche la voce scòpola (scappellotto): nel 1870, ricorda Valera, dà la scòpola significa “rubare, grassare”. Il balord (balordo) è l’uomo della mala per eccellenza, così chiamato anche da quelli della pula (polizia, quindi poliziotti): la parola proviene dal latino volgare bislurdus (luridus) che sta per “livido, pallido” nel senso di sbalordito. Poi c’è il lócch, il duro per antonomasia; più che vocabolo gergale, lócch vanta un’origine storica, provenendo dal latino lucus (allocco). Infine, c’è il dupi, dupiun, che è il capo della banda; quello che nella spartizione del bottino pretende il doppio rispetto agli altri; e, in quanto capo, lo ottiene!
Proseguendo con le varie “specializzazioni”, troviamo: gatt, merlìn e gratta per definire il ladro, il borsaiolo. Il gatt in grand è il truffatore in grande stile; il merlìn, rintracciato da Bazzetta de Vemenia, è – come il mago Merlino – un vero prestigiatore del furto. Diverso il termine scapuzzador: è l’assassino, il brigante di strada, chiamato scapusc nel Settecento, dall’argot francese escapouche. Vediamo i borsaioli; mestierante è voce impiegata non solo a Milano mentre maggiormente calzanti sono le voci pescador (pescatore, nelle tasche altrui!) e pescador de santa gésa, quello che ruba le elemosine. I borsaioli aristocratici sono chiamati i fini, tutti gli altri vengono detti, con elegante francesismo, fondeur oppure gabolista (da gabola, imbroglio, truffa). Il volant e il violinista sono due categorie di malandrini specializzati: i primi prediligono tram, auto, diligenze; i secondi compiono furti al volo, oggi chiamati scippi. C’è poi l’individuo predestinato – si suppone dalla più tenera età – al furto, al borseggio: è detto croccant e anche dannàa (croccante e dannato). L’azione del rubare, infine, vanta una buona scelta di nomi: dall’antico milanese vin (furto) al taròcch (furto ben riuscito) come la carta buona del gioco omonimo. Dalla binta (rapina) alla roba de saccocia (letteralmente: roba da tasca), quindi furto minuto. Altro tipo di furto è lo scrusc, da scruscià (acquattarsi); il topich (rapina a mano armata) si affianca allo strillo (furto in un negozio); va da sé che lo strillo arriva dal derubato!