L’ex difensore dell’Inter e della Nazionale è morto oggi per i postumi del covid, che tre mesi fa gli era costato l’amputazione delle gambe. Ci avevano presentato vent’anni orsono. E subito ci riconoscemmo interisti, senza bisogno di dirselo.
Me lo presentarono una quindicina di anni fa, in un contesto che col calcio non c’entrava nulla.
Bastò uno sguardo: “Noi interisti ci si riconosce al volo“, mi disse.
Aveva ragione. Fu una stretta di mano di particolare calore.
Bellugi aveva la faccia da interista e io anche, si vede. Sebbene non sappia bene perchè. Ma il calcio è come la musica: ti cerca.
Ero già grande e chiacchierando gli raccontai un episodio della mia infanzia che lo riguardava, perchè oltre che profondamente interisti eravamo quasi conterranei: io di Siena e lui di Buonconvento, provincia senese, a venti km dalla sede storica della mia famiglia, dove allora già vivevo.
Nel 1970 lui arrivò all’Inter, avevo 10 anni io e lui 20.
Il mio interesse per questo difensore un po’ strano, che parlava toscano, esplose subito. Era forte, finì presto in Nazionale con tanti dei nostri: Burgnich, Facchetti, Mazzola, Boninsegna.
Di lui lessi un’intervista, mi pare su “L’Intrepido“, dove dette una risposta che mi è rimasta impressa per sempre e che gli raccontai in quella fugace occasione milanese.
La domanda era: “Che avresti fatto se non fossi diventato calciatore?“.
E Bellugi rispose: “Mi sarebbe toccato fa’ l’orefice, come il mi’ babbo“.
Lui rise, disse che era vero, bevemmo qualcosa insieme parlando di Inter, ovviamente.
Era bastato quello per diventare amici.
Quando mesi fa seppi che per i postumi del covid ti avevano amputato le gambe e te già pensavi alle protesi di Pistorius, che poi ti voleva pagare Massimo Moratti, riconobbi subito il guascone nerazzurro della Val d’Arbia che avevo conosciuto.
Accidenti.
Vale atque vale.