La contrazione di mercati e consumi dei rossi suggerisce di dotare le aree interne di un bianco regionale d’alta gamma capace di fungere da paracadute e da investimento per il futuro. E’ fattibile? Come? Quando? Se n’è parlato in un primo convegno all’Enoteca di Siena.

 

Lasciamo perdere, per favore, le questioni a breve termine come i dazi, erroneamente evocate.

E’ invece pensabile la progettazione e la “costruzione” di un vino bianco di alta gamma prodotto nella Toscana interna, capace di competere per qualità e prezzo coi più prestigiosi concorrenti internazionali e, al tempo stesso, di cavalcare l’impennata planetaria dei consumi di questa tipologia, arginando almeno nel futuro anteriore la perdita di quote di mercato accusate dalla produzione regionale, che sconta il trend internazionale – almeno in apparenza inarginabile – della flessione dei rossi, nerbo ed emblema per definizione del vino made in Tuscany?

Secondo qualcuno la risposta è sì. Ma bisogna lavorarci parecchio.

Il guanto di sfida è stato lanciato nei giorni scorsi a Siena da parte di una sorta di santa alleanza che nella Fortezza Medicea della città del Palio ha messo insieme la Regione, le Donne del vino, la rinata Enoteca Italiana e l’Accademia Italiana della Vite e del Vino per un primo convegno-apripista (“tornata“, è stato definito) fatto di numeri, di degustazioni e di scienza enologica. Al termine del quale la mia personalissima sensazione  – al di là delle opinioni sull’opportunità dell’operazione – è stata che il cammino da percorrere sarà davvero lungo (forse troppo lungo, proprio cronologicamente parlando, considerata la volatilità e l’influenzabilità delle tendenze di cui si parla), ma che forse ci potrebbe essere la trasversale determinazione politico-istituzionale per portarlo a compimento.

La questione si pone su tre versanti.

Il primo è quello strettamente imprenditoriale e commerciale, ossia dell’eventualità-necessità per la viticoltura toscana di dotarsi di un nuovo prodotto, creato secondo le coordinate dette sopra, con le strategie e gli investimenti conseguenti sia da parte della Regione, sia da parte dei produttori.

Il secondo è quello tecnico-enologico: quali caratteristiche in concreto dovrebbe avere questo vino, fatto con quali varietà, coltivate dove e come e vinificate in che modo, per essere in grado di dare i risultati sperati?

Il terzo, banalmente, è: quanto tempo ci vorrà per passare dalle parole ai fatti e, dai fatti, al vino sugli scaffali?

Nella sua relazione intoduttiva, la presidente delle Donne del Vino, Donatella Cinelli Colombini, ha sciorinato i numeri che dimostrano come la Toscana non costiera, troppo legata ai vini rossi, possa rischiare a medio-breve periodo di trovarsi “scoperta” su un mercato sempre più voglioso di bianchi: oggi il 49% dell’export italiano, in cui la Toscana è seconda alle spalle del fenomeno-Prosecco, è infatti di vini bianchi, il 59% dei consumi interni di vino è sempre di bianchi e perfino il mercato cinese sta orientandosi verso questa tipologia. In questo quadro però, ha sottolineato, la più tradizionale uva bianca toscana, il Trebbiano, è solo il quinto dei vitigni più coltivati nella penisola, con una superficie ormai modesta e in progressivo arretramento: “Se anni fa lungo la fascia tirrenica della nostra regione il rilancio legato al Vermentino e all’Ansonica è andato a buon fine, dotando la costa, da Massa a Capalbio, di un’identità e di un’offerta di vini bianchi di qualità ormai affermate – ha detto – non altrettanto può dirsi per le aree di tutte le altre province toscane, da Prato a Firenze, da Siena ad Arezzo. Le quali non solo non dispongono di un bianco “regionale” all’altezza, ma nemmeno della massa di vigneti sufficiente a produrlo“.

La proposta ha incassato la “disponibilità” del presidente del Consorzio Igt Toscana, Cesare Cecchi, a “valutare” l’ipotesi, purchè formulata col necessario realismo e sinergia tra i vari soggetti interessati, e l’endorsement di Gennaro Giliberti, dirigente del dipartimento Agricoltura e sviluppo rurale della Regione Toscana, per il quale “per assecondare questa nuova fase la Regione può intervenire su tutti gli anelli della filiera, dalla gestione del potenziale vitivinicolo, attraverso l’unico schedario grafico presente oggi in Italia, agli investimenti in vigna, in cantina e nella promozione UE ed extra-UE”.

Più sfumate le reazioni del mondo scientifico. Da parte sua, l’accademico e il direttore del Crea di Arezzo, Paolo Storchi, ha confermato che, dei 43.00 ettari di vigneto attualmente presenti nelle quattro province, solo 4.300, ossia appena il 10%, è costituito da varietà a bacca bianca. Aggiungendo però che i vitigni bianchi toscani sono tali e tanti che potrebbero in teoria dar vita non solo “a un nuovo grande vino, ma a nuovi grandi vini toscani“. Non a caso, ha concluso, in Toscana la scomparsa delle uve bianche è un fenomeno relativamente recente: “Se alcuni secoli fa essi rappresentavano, come dimostrano anche le fonti iconografiche, la maggioranza dei vigneti regionali, è nell’ultimo mezzo secolo che si è registrato il crollo: solo per fare un esempio, nel 1967 il disciplinare del Chianti Classico ammetteva ancora fino al 30% di Trebbiano o Malvasia, percentuale che è scesa al 5%  nel 1984 con l’arrivo della docg e che potenzialmente si è azzerata nel 2006, con la possibilità di utilizzare il 100% di Sangiovese“. Sulla “ritirata” toscana del Trebbiano i numeri sono in effetti impietosi: dai 14.500 ettari del 1990 si è scesi ai 3.500 del 2010 e ai 2.135 del 2024. Ciononostante, esso resta il vitigno più coltivato nella regione, con una superficie tripla rispetto al secondo (Vernaccia, 748 ettari) e quadrupla rispetto al terzo (Chardonnay, 558 ettari). Va poi considerato, ha rimarcato Storchi, che da un lato non tutti i vitigni bianchi, come ad esempio il Vermentino, sembrano adatti a dare il meglio nelle colline interne, mentre ce ne solo altri, come il tardivo Petit manseng, o l’Orpicchio, varietà quasi scomparsa ed oggi recuperata, o ancora il Sauvignon Rythos, varietà resistente in via di autorizzazione, che paiono poter offrire risultati incoraggianti. Nella valutazione del quadro generale occorre infine considerare, ha ammonito, il fattore climatico, che sempre più sta innalzando le quote dei vigneti: negli ultimi cinque anni, in Toscana, ben 200 ettari di vigna hanno trovato dimora dai 500 e i 1.300 metri di quota. Ma attenzione: l’altura richiede grande cautela tanto sotto l’aspetto idrogeologico che della sperimentazione per la ricerca delle giuste varietà da impiantare.

E qui il discorso si è allargato dal futuro al futuribile, come hanno dimostrato gli interventi del prof. Claudio D’Onofrio dell’Università di Pisa e del prof. Giovan Battista Mattei dell’Università di Firenze, soffermatisi sulle intricate e remote origini dei vitigni internazionali, italiani e toscani più diffusi (e non) e su dove, oggi, sia possibile recuperare a fini produttivi i germoplasmi da utilizzare per le sperimentazioni in vista del “bianco toscano interno” di domani: al di là delle uve più comuni, la Toscana è infatti un autentico arcipelago ampelografico fatto di centinaia di vitigni autoctoni, tutti da esplorare ma spesso coltivati in poche decine di esemplari, quindi in un contesto ben lontano da quello necessario a garantire in tempi brevi o anche medi il materiale per realizzare il nuovo “vigneto bianco” regionale, qualsiasi siano le basi ampelografiche prescelte.

Quasi a dimostrazione del grande potenziale da un lato e dell’enorme difficoltà di messa a punto del progetto dall’altro, il convegno è stato preceduto da un’interessante degustazione, condotta da Cristiano Cini, di undici vini bianchi toscani messi a disposizione da altrettante donne del vino toscane, tutti caratterizzati da un’estrema varietà di uvaggi, di stili, di provenienza, di annata e di tecnica enologica, compresa la vinificazione in bianco del Sangiovese (tre campioni su undici).

E qualcuno si è chiesto se quest’ultimo fosse un messaggio trasversale o un’ipotesi programmatica.