MEMOIRTAGE/2. Ai margini dell’antica cittadina laziale, un oratorio che è al tempo stesso simbolo della ricchezza dell’Italia profonda e un monito alla necessità, per coglierne l’essenza, di guardare le cose da vicino.

 

Penso di non essere il solo a pensare che il Lazio sia una delle meno conosciute e più sottovalutate regioni italiane. Schiacciata dal fascino e dalla luce (invero intramontabile) di Roma. E dove il resto, che è tanto e spesso fulgido, finisce per apparire un contorno un po’ sfuocato, messo ulteriormente in ombra da vicini scomodi e mediaticamente brillanti come la Toscana, o come Napoli. Che non a caso marcano in modo netto, a nord e a sud, quei confini culturali e amministrativi che verso Oriente, sulla dorsale appenninica, appaiono molto più sfumati, lenti, a volte addirittura impalpabili. Ragioni storiche, si capisce. Ma al viaggiatore un po’ sovrappensiero, o poco preparato (ad esempio come me in una recente ricognizione) resta la sensazione che quelle lande vastissime e vagamente misteriose – la Maremma laziale, la Sabina, la Ciociaria – siano solo l’incomodo per raggiungere o per allontanarsi dalla capitale.

Non ho mai capito, in verità, se tutto ciò sia per la gente del posto un rammarico, un motivo di muta soddisfazione da best kept secret o uno scudo affidabile contro invasioni aliene tutto sommato non necessarie, nè desiderate.

Il Lazio extracapitolino trae tuttavia da questa condizione una non secondaria parte del suo fascino. Quello di una provincia profonda e terragna, orgogliosamente abitudinaria, custode di un’italianità o perfino di una latinità ancestrale, periromana ma non romacentrica (perdonate l’acrobazia dialettica), di un’identità ben mantenuta e immersa in un mondo verace dove l’autenticità non è sempre e per forza una virtù e però c’è, si tocca: per le strade, nelle conversazioni, tra la gente, nei tinelli delle case, nella patina un po’ polverosa che avvolge i borghi e le cittadine, tra qualche buca di troppo nelle strade e qualche sopravvissuta insegna sbilenca messa ancora dal nonno durante gli anni del boom. Quella che vi si respira è una sensazione di pacata gaudenza, un po’ cinica e un po’ fatalista, un po’ bonaria e un po’ sborona. Dove tutto il patrimonio di bellezza e di antichità stratificate ha il sapore del naturale, del normale, dell’abituale, di cui solo gli stranieri si stupiscono.

Proprio per tutte queste ragioni, imbattersi senza preavviso in certi monumenti tanto defilati quanto abbaglianti ti trafigge come una freccia. E acuisce i tuoi sensi di colpa, la tua sensazione di inadeguatezza nei confronti di quel patrimonio che, oltre a far trasalire, dovrebbe continuamente far riflettere.

E’ quello che mi è successo a Cori, in provincia di Latina, ai piedi dei Lepini e ai margini dell’Agro Pontino, dov’ero per pedestri questioni enoiche (i Vini d’Abbazia a Fossanova, altro posto da non perdere) e dove, col tempo tiranno e reduce da una visita al meraviglioso Giardino di Ninfa (come sopra), mi sono pigramente e un po’ distrattamente fatto trasportare in convoglio, immerso tra altri pensieri.

Sul cancelletto che immette in una ripida scalinata, a sfioro su un vialone anonimo fuori dal centro storico, c’era un cartello: “Cappella dell’Annunziata“. Pareva destinato più a pie donne e a devoti di passaggio che a turisti quali, a tutti gli effetti, eravamo. Saliamo. Il complesso è piccolo, massiccio, con mura spesse, spazi angusti ed evidenti segni esteriori di sciagurate superfetazioni. Qualcuno più provveduto, non senza risolini circostanti, ci accenna che stiamo per ammirare “la Sistina di Cori“.

Ora non starò ad annoiarvi scopiazzando note di storia dell’arte dai siti specializzati, ai quali vi rimando (ad esempio qui) per gli opportuni approfondimenti. Ma c’è qualcosa, in quell’oratorio quattrocentesco e in quegli affreschi tardogotici – fitti, narrativi, didascalici, predominati da blu scuri, rossi profondi e rosa antichi, illuminati dalla luce obliqua, a tratti quasi radente, di due finestrelle – che mi ha impressionato: la loro vicinanza. Una vicinanza tangibile, tale che l’occhio poteva percepire la scabrosità della superficie e l’ondulazione degli intonaci, la scia del pennello e qualche piccola crepa. Una vicinanza diretta, impressionante, che portava il sacro fino a te e ne accresceva la potenza mistica, al di là delle rappresentazioni e del valore artistico.

Una sola volta: bassa, avvolgente, quasi incombente. Una sorta di bozzolo. I muri altrettanto bassi e incombenti, così fittamente dipinti. Tutto ciò mi ha provocato un immediato flashback letterario, un richiamo mnemonico irresistibile, frutto non solo di letture, ma di tempi, di viaggi, di cronaca e di stretta attualità. Di colpo, davanti agli occhi, mi si è materializzata l’immagine dettata alla mia fantasia tanto tempo fa dalle pagine di “Un mese in campagna“, formidabile romanzo di James Lloyd Carr: una visione ravvicinata di ammalorati affreschi medievali di una chiesetta dispersa nel countryside inglese. Affreschi che sono alla base del racconto, con gli enigmatici simboli fatti affiorare a poco a poco dal bisturi del restauratore-reduce, dipinti custodi di un segreto antico, irriferibile, ma pure di folgorante modernità, tra conversioni, potere della fede e intrecci del destino. A Cori, nella Cappella dell’Annunziata, quell’istantanea che da decenni mi albergava in testa, ho avuto per la prima volta la sensazione di poterla davvero toccare, di trovarmi proprio lì.

E di ciò devo ringraziare la placida provincia laziale, quella profonda di cui si diceva, e la nonchalance con cui la nostra defilata Italia di mezzo è capace di restituire, riportandola al centro della memoria, la stratificazione della storia nazionale e del vissuto individuale.

 

(*) MEMOIRTAGE è la crasi tra memoir e reportage, ossia tra memoria e cronaca. In pratica una rubrica (a cadenza, lo premetto, assai irregolare) in cui mi divertirò, tra fatti, ricordi e suggestioni, a raccontare luoghi e situazioni in cui mi capita di ritrovarmi dopo lungo tempo. Un po’ un esercizio di stile, un po’ racconto e un po’ giornalismo, ma sempre verità. L’unica che, letteratura a parte, dà un senso allo scrivere.