La nuova cantina realizzata a Bolgheri dal magnate argentino Alejandro Bulgheroni, ricavata da un’ex cava, non è solo un’altra tessera nel mosaico delle cattedrali del vino, ma un’idea per la riconversione degli ex siti industriali.

 

Non posso negare che l’argomento abbia un certo fascino, ma devo anche ammettere di non essere mai andato pazzo per le cosiddette cantine d’autore, ossia le cantine-monumento realizzate dai famosi architetti che, con investimenti enormi, negli scorsi decenni hanno preso a punteggiare il vigneto-Italia e fatto molto parlare di sè sui media, dando vita a un vero e propro fenomeno di emulazione.

Non sono nessuno, sia chiaro, per valutare la qualità progettuale di queste cattedrali del vino, vera o a volte presunta, nè tantomeno per giudicare l’ego, spesso notevole, dei facoltosi committenti. Posso al massimo ammirare l’indubbio ingegno che certe opere dimostrano e provare a fare due conti per valutare il rapporto costi-benefici delle varie situazioni. Rapporto che varia molto non solo in relazione all’entità delle spese sostenute, ma anche alle dimensioni dell’azienda, alle strategie di comunicazione e marketing prescelte, al momento storico e commerciale in cui il tutto viene realizzato e, in definitiva, al “ritorno” che la costruzione di una cantina costosissima e ingombrantissima, nonchè onerosa da mantenere, può offrire. Senza dimenticare il dettaglio più importante di tutti: oltre ad apparire, le cantine-monumento devono anche assolvere al compito di luogo in cui il vino si produce. Con qualità ed efficienza.

Naturalmente non escludo affatto che molte possano essere il frutto di investimenti azzeccati e di valutazioni ben fatte, foriere quindi di risultati tangibili. Ma continuo a farmi una domanda: cosa resterà di questi enormi manufatti sparsi per la campagna, e quindi di difficile riuso e riconversione, nel momento in cui, per un motivo qualsiasi, il loro utilizzo diventasse insostenibile, o obsoleto, o improduttivo?

Mi sono posto lo stesso interrogativo visitando, alcune settimane fa, la Cantina Meraviglia, costruita dal magnate argentino Alejandro Bulgheroni (Gruppo ABFV Italia) nell’ex Cava di Cariola (vi si produceva la ghiaia per la costruzione della vicina Aurelia), in comune di Castagneto Carducci, alle propaggini meridionali del territorio della doc Bolgheri. Una struttura che per dimensioni (7.000 mq) e investimento (23 milioni di euro) sembra porsi in pieno nel solco dell’industria globale del vino e di quel certo mainstream imprenditorial-architettonico a cui facevamo accenno sopra.

E invece, forse, no. O non solo.

Le ragioni sono due.

La prima è che non si tratta dell’opera di un archistar e che non aspira a una dignità monumentale. Firmata dallo Studio Bernardo Tori con la consulenza ingegneristica di Niccolò De Robertis (AEI Progetti), è sì grande, a tratti grandiosa, a suo modo pure bella. Ma non punta a suscitare, a smentita del nome, una “meraviglia” estetica. Mira casomai, come la posizione, i colori e il contorno dimostrano, al risultato opposto: camuffarsi nell’ambiente. Fin qui però non sarebbe certo la sola, il mondo abbonda di supercantine più o meno immerse e più o meno dissimulate, in tutto o in parte, nel sottosuolo e nella natura circostante.

La seconda, a mio avviso molto più importante, è il sito nel quale la cantina è allocata: un’ex cava abbandonata, da anni vera e propria spina nel fianco ambientale per l’intero comprensorio. Il che dà all’intera operazione un senso molto più ampio. Non solo in termini di stretta benemerenza (non sono così ingenuo da credere che Bulgheroni abbia fatto tutto per pura filantropia), ma in termini di strategia e perfino di visione, di obbiettivi a lunga gittata. Sia da parte dell’imprenditore, sia da parte della pubblica amministrazione. E ciò anche al di là di altre indubbie qualità della cantina, come ad esempio il fatto che il materiale di costruzione sia al 95% di produzione locale, che anche la bonifica abbia comportato il riciclo di gran parte dell’inerte residuato dall’attività estrattiva (riolite, una roccia vulcanica effusiva) e che la progettazione abbia comportato soluzioni tecniche e installazioni enologiche d’avanguardia.

Il nostro paese strabocca di situazioni ambientali critiche, postindustriali, ex produttive. Le cave ne sono in effetti un ottimo esempio. Sono ferite inferte tanto al paesaggio quanto alla stabilità dei suoli e spesso alle falde acquifere, che in qualche modo andrebbero prima bonificate e poi riassorbite. Si trovano di solito in zone decentrate ma spesso, per ovvie ragioni, anche già dotate di una decente rete infrastrutturale, il che agevola non poco qualunque attività, cantine di produzione vinicola comprese.

In questo senso, l’operazione-Meraviglia mi pare molto riuscita, anche al netto degli altri evidenti e più generici benefici che un grande investimento comporta: occupazione, vivacizzazione economica del territorio, rispetto dell’ormai ubiquo principio della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

Mi sembra anche un invito generale a un più approfondito ripensamento sia delle strategie di recupero delle strutture perindustriali dismesse (il cui riutilizzo museale e/o ricettivo è un modello virtuoso, ma non sempre praticabile e che da un po’, proprio per questo, mostra la corda), sia dei rapporti tra investitori e enti pubblici. Un rapporto che spesso, al di là delle petizioni di principio, stenta a decollare per troppi incroci di diffidenze, cointeressi e calcoli politici.

Tutte cose complesse, ma facili da immaginare affacciandosi dalla terrazza sul Tirreno al terzo piano della cantina e provando a pensare che, fino al 2017, lì sotto c’era un disastro a cielo aperto.

La cantina è il luogo produttivo dei due brand aziendali, Tenuta Meraviglia e Tenuta Le Colonne, per un totale di 95 ettari. “Una divisione – spiega l’ad del gruppo, Stefano Capurso prettamente agronomica: Meraviglia, più in alto, ha suoli di natura vulcanica ed è quasi per la sua totalità piantata a Cabernet Franc, con 3 ettari nel pedecollinare di Vermentino, mentre Le Colonne  si estende fino quasi a toccare il mare, su suoli sabbiosi“.

Sarà anche, ovviamente, un luogo di ospitalità ed enoturismo. Aprirà al pubblico a settembre.