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Nuova Zelanda, 1963: in quarantena al contrario

Stefano Tesi1 Luglio 2019
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di URANO CUPISTI
Diciassettenne, sbarcai dal cargo e, ritenuto dai sanitari non pericoloso per il bestiame locale, potei visitare all’avventura l’arcipelago, allora quasi del tutto rurale. Ripartii con molti ricordi e un bastimento di lana e di pelli da conciare.

 

In Nuova Zelanda ho effettuato due viaggi: il primo nel lontanissimo 1963 (avevo 17 anni), con mio padre  e il secondo nel mio giro del mondo (1979) a scoprire il mistero della Date Line.
Agosto 1963. Mio padre, direttore di macchina sui cargo, allora effettuava viaggi di lavoro da e per l’Australia e da e per la Nuova Zelanda. Potendo eccezionalmente aggregarmi e dovendo scegliere, optai per la seconda, toccando il porto di Timaru, nell’Isola del Sud, posto sulla costa est, al centro, o quasi, della direttrice Christchurch-Timaru-Dunedin-Queenston (Lago Wakatipu)-Alexandra-Invercargill (la città più a sud, vicina al 50° parallelo).
Rimasi una settimana a Timaru ed insieme al figlio dello spedizioniere, usando tutti i mezzi di locomozione, ci spingemmo alla conoscenza dei paesaggi alpini, i profondi fiordi, attraversando le vaste foreste di faggete, a passeggiare sulle bellissime spiagge, clima invernale permettendo.
Christchurch, un’angolo british nell’emisfero boreale. Percorrere le sue strade e sentirsi nei sobborghi londinesi;
Dunedin, chiamata a giusta ragione la Edimburgo dell’emisfero boreale, con i tanti pub scozzesi ricchi di fascino. E dove d’inverno respiri la solita aria della capitale scozzese.
Queenstown, adagiata in quel contesto “svizzero” rappresentato dal Lago Wakatipu, centro di sport invernali anche allora, nel 1963;
Inercargill, l’impressione di trovarti a due passi dall’Antartide. Nei mesi autunnali a discutere dei bilanci delle spedizioni appena concluse, in quelli invernali a progettare le prossime e nei mesi primaverili a preparare i materiali per le imminenti.
Ed infine Alexandra, al centro del Central Otago, quella regione sconosciuta allora che non sapeva di diventare famosa negli anni a seguire.

Peter Jackson, regista neozelandese, ambientò infatti i suoi tre film (usciti nel 2001 e 2002) della saga del Signore degli Anelli di Tolkien sia nell’Isola del Nord che in quella del Sud e, in quest’ultimo caso, proprio nel Central Otago.
Aver visto queste vallate alpine piene di fascino e neve nel 1963 e poi nell’ambientazione cinematografica del 2001, ancor oggi mi fa gridare: lì ci sono stato anchio!
Ma Alexandra e il Central Otago vantano oggi un altro primato: essere il centro vitivinicolo maggiore per la produzione di uve Chardonnay e Pinot Noir adatte per la spumantizzazione, lo sparkling neozelandese. Allora ancora non mi interessavo di vino, non conoscevo niente di questo particolare mondo. Mi limitai ad osservare le vigne spoglie e ricoperte di neve (era agosto, pieno inverno) e la sera illuminate da una miriade di lampadine e fuochi per riscaldarle. A distanza di quasi 60 anni immaginare di parlarne con le conoscenze di oggi mi sembra incredibile se non mirabolante.
Di quel viaggio ricordo in particolare l’arrivo a Timaru, l’attracco alla banchina e quel cartello “quarantine” messo ai piedi della scaletta di accesso-nave. Quarantena? Oddio siamo portatori di chissà quale morbo.
Tutto fu chiarito dalla salita a bordo dei funzionari statali addetti ai servizi dell’Agricoltura e delle Dogane. I primi, un drappello con tanto di tuta bianca e maschera, muniti di bombole tipo estintori antincendio pronti a “disinfettare tutti i locali dell’equipaggio”, i secondi a controllare i documenti della nave e di tutti noi.
“E questo chi è?“, esclamò un doganiere riferendosi al sottoscritto.
“È il figlio del Direttore di Macchina , con passaporto e documento di viaggio dell’armatore“, rispose il primo ufficiale addetto a questi precisi incarichi.
Timbro liberatorio e permesso allo sbarco per 15 giorni (visto turistico).
A tutti fu distribuito, in lingua inglese, francese e cinese, un documento dove le autorità invitavano a capire il perché di queste precauzioni sanitarie. In sintesi il documento riportava che “l’economia della Nuova Zelanda è basata sull’agricoltura ed in particolare sull’allevamento di bovini ed ovini (nel c’erano 5 milioni di capi su una popolazione di 3 milioni di abitanti, ndr): l’importazione, anche in piccole quantità, di cibo e materie prime di origine vegetale o animale è rigorosamente controllata allo scopo di limitare la diffusione di malattie e parassiti di piante e animali”.
Terminati i controlli e sequestrati ogni genere ritenuto infetto, iniziarono le operazioni di carico di balle di lana di pecora e pelli pronte per la concia.

Questo era il tesoro da portare in Inghilterra.

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