Da anni il fotogiornalista Guido Cozzi documenta l’artigianato fiorentino, croce e delizia della città. Ora affida al crowdfunding un libro fuori dal coro, in cui per immagini non parlano le persone ma i luoghi in cui esse lavorano. E con un occhio al futuro.
Conosco Guido Cozzi da molto tempo. E’ un collega che stimo, con cui ho condiviso parecchie avventure professionali e non. E’ uno che pensa in autonomia e che, prima di parlare, riflette. Ha pure il dono della manualità e le cose, se non le ha, se le inventa, per poi costruirle da sè.
Stavolta però mi ha sorpreso con un progetto singolare, che oltretutto prende spunto da un lavoro fatto insieme anni fa e dedicato al malinconico tramonto dell’artigianato fiorentino. Era un libro, si chiamava “Vanishing Firenze”: testo e foto dedicati agli ultimi esponenti di quella categoria tormentata, in bilico perenne tra gloria e declino, tra vanto e lamentela, tra esaltazione e retorica.
Nel tempo Guido, molto più di me, ha continuato a interessarsi all’argomento. E soprattutto a fotografarlo. Arrivando a una conclusione folgorante. E solo col senno di poi lapalissiana: ciò che “fa” l’artigianato, ossia ciò che lo incarna, lo rispecchia, quasi lo costituisce non sono le persone (persone non sempre, diciamolo, dello spessore – anche umano – che ci si aspetterebbe), ma i luoghi nei quali esse lavorano, ossia le loro botteghe. Sono queste, nella loro unicità vissuta, nell’ordine e nel disordine, nelle luci a volte sbilenche e nell’aria sospesa che imprigionano, a testimoniare realmente l’”arte” e chi la esercita.
Ed ecco l’idea: un volume di “ritratti in contumacia” di artigiani fiorentini. In cui, cioè, al posto loro appare la loro bottega. Vuota, al naturale, così com’è, vera. E capace di raccontare la personalità di chi vi abita molto meglio delle pose artefatte, delle espressioni inespressive, degli sguardi annoiati o imbarazzati di tanta gente brava, operosa, a volte geniale e a volte meno, ma raramente coinvolta sul serio nello sforzo di chi cerca di far capire, con uno scatto, l’anima di ciò che fanno e predicano.
Come sia arrivato al conquibus, e come pensi di portarlo in fondo (che è una parte non secondaria dell’idea), lo lasciamo dire a lui.
E’ un progetto con origini lontane: una ventina di anni fa è venuta a Firenze una giornalista tedesca a fare un reportage turistico sulla città per un noto periodico femminile. Io dovevo fare le fotografie a corredo del servizio e la signora mi chiese di incontrare alcuni artigiani. All’epoca viaggiavo molto e pur avendo lo studio al Poggio Imperiale scendevo molto raramente in centro, per cui le risposi dicendo ciò di cui ero convinto: che artigiani a Firenze non ce n’erano più. Ovviamente mi sbagliavo, ma il risultato fu che quando uscì l’articolo la giornalista segnalò due o tre indirizzi di artigiani totalmente fasulli, di quelli che oggi potremo definire artigiani per turisti. Per me, una profonda delusione. Quella fu la molla che mi fece scattare la curiosità e un certo spirito di rivalsa: così mi misi a cercare gli autentici artigiani fiorentini. Con un po’ di lavoro trovai le prime botteghe. Il passaparola tra i vari artigiani mi fece fare scoperte interessanti, a volte anche entusiasmanti, e in breve mi trovai in mano del buon materiale. Nel 2009 uscì il nostro Vanishing Firenze. E’ ancora oggi un libro a cui sono molto affezionato. Tuttavia riconosco che fu un progetto acerbo, che lasciò qualcosa in sospeso. Però mi aveva aperto un mondo e fu da lì che decisi di intraprendere un progetto artistico sul tema.
E quindi?
Ho cominciato a fotografare in maniera seriale le botteghe fiorentine, lasciando da parte il mio abituale approccio compositivo, riducendo tutto alla stessa inquadratura frontale, senza alterare luci e situazioni e soprattutto senza mai ritrarre l’artigiano: doveva essere la bottega, la stratificazione di materiale, oggetti e gesti, a parlare per lui. Un ritratto in contumacia, una sorta di sinopia dell’artigiano la cui traccia vitale rimane impressa nella bottega. Lavorando al progetto a fasi alterne, nell’arco degli ultimi 15 anni ho collezionato 120 immagini di botteghe e conto che ne siano rimaste almeno un’altra ventina meritevoli di essere documentate. Dopo la recente mostra delle mie foto, allestita all’Istituto de Bardi presso Palazzo Capponi, mi è così venuta voglia di chiudere il progetto con la pubblicazione di un nuovo libro che fosse la sintesi di questo lavoro. Così ho lanciato una campagna di crowdfunding per finanziare parte delle spese di realizzazione e, al contempo, per essere libero di decidere i contenuti in piena autonomia.
Ecco, questa è l’altra parte dell’idea ma, secondo me, tutt’altro che secondaria. Spiegala meglio.
Il crowdfunding è uno strumento interessante, potente. Permette di dare vita a dei sogni che altrimenti sarebbero destinati a rimanere nei cassetti. Un libro come questo, ad esempio, nessun editore investirebbe i soldi necessari per stamparlo: elitario e un pò fuori dalla narrazione romantica di una Firenze che non c’è più, è destinato senz’altro a rimanere un titolo di nicchia (se arriviamo a duemila copie si può gridare al miracolo). Peró è un libro che avrà una sua ragione di vita, e va stampato. Il crowdfunding permette di intercettare un pubblico che sappiamo esistere, ma non sappiamo dov’è, e di raccoglierlo intorno a un progetto. Se il progetto è convincente arriveranno dei contributi, dettati dai criteri personali di chi partecipa e motivati ovviamente dall’acquisizione di copie del libro e altre ricompense, altrimenti il progetto muore, e forse è giusto che sia così. Il bello del crowdfunding non sta nel “funding” i soldi, ma nel “crowd” la folla, le persone, che quando si uniscono possono fare anche cose belle. Il progetto l’ho caricato su una piattaforma italiana, produzionidalbasso.it perchè questa idea ha anche qualche risvolto sociale e volevo incontrare un pubblico sensibile a questi temi. Per il successo dell’operazione conta ovviamente anche la propria rete sociale e il supporto del buon vecchio “passaparola”. La risposta c’è stata e già adesso posso dire di essere sulla buona strada.. In ogni caso, più persone partecipano e meglio è, perchè fare un libro è sempre una piccola avventura: Incognite e insidie non mancano mai. Qui il link per visionare il progetto.
In sostanza stai pensando a qualcosa di quasi rivoluzionario nel quadro un po’ stucchevole in cui spesso si sguazza: un libro-verità dove a parlare sono i luoghi e non le persone. E’ questo allora il focus del libro?
Sì, anche. Fotografando tante botteghe e conoscendo altrettanti artigiani ho scoperto che l’artigianato fiorentino esiste ancora ed è vivo. Ma ho scoperto anche che non è tutto oro quello che luccica: gli artigiani veri sono dei dinosauri, dei superstiti, dei naufraghi di una civiltà che è, quella sì, veramente scomparsa: qualcuno ha detto che un tempo Firenze “era una gigantesca bottega sotto forma di città” mentre oggi è diventata un parco a tema in scala reale, un grottesco luna park dove trovare traccia di qualcosa di autentico richiede tempo, fatica e una certa perizia.
Che idea ti sei fatto di questi “artigiani veri”?
“Essere artigiani può essere molte cose: vuol dire saper fare il proprio lavoro partendo dalla materia prima necessaria, sia essa legno, pietra, vetro, ferro o altro, e con le mani trasformare un’idea in un oggetto. Si potrebbe definire che l’artigiano è chi ha saputo rubare con gli occhi per imparare il mestiere e pensare con le mani per continuare a esercitarlo. Ma non basta: qualche artigiano può anche sconfinare, andare oltre e diventare artista, magari senza saperlo. Per trovare quel punto esatto sul confine tra artigiano e artista, che è un confine labile, etereo, dobbiamo risalire indietro nel tempo, forse dobbiamo scomodare Michelangelo, che primo fra tutti ha capito che uno scultore o un pittore, quando avevano qualcosa da dire, non erano più valenti artigiani, ma diventavano qualcosa di altro, capaci di predire a tutti nuove strade da seguire. Ma gente così ne nasce una ogni cento anni, perché per essere artisti ci vuole visione e tanto coraggio. E spesso l’indole dell’artigiano queste doti non le ha: l’artigiano non è solo bellezza sapienza e armonia, ha anche i suoi lati oscuri: c’è la chiusura in se stessi, c’è la diffidenza, c’è la totale impermeabilità a tutto ciò che è nuovo, c’è caparbietà a volte ottusa di non accettare il confronto con l’attualità e di gestire il proprio lavoro come si fosse ancora nella Firenze dei Medici.
E’ un mondo che comunque si può salvare? O che vale la pena di salvare?
Io non credo che si debba salvare l’artigianato Fiorentino a tutti i costi. In un mondo che cambia con questa velocità e con questa profondità, nessuno può aspettarsi di essere salvato. E comunque, forse, non ne varrebbe la pena: se una cosa è viva si salva da sola. La tradizione, diceva Gustav Mahler, non è adorare le ceneri ma custodire il fuoco. Dobbiamo chiederci se il fuoco creativo dell’artigianato è ancora vivo da qualche parte ed è a questo fuoco che dobbiamo dare spazio, non al dinosauro impantanato. D’altra parte anche il rapporto fra la città e gli artigiani è ambiguo e poco generoso ma, trattandosi di una relazione, nell’ambito di essa bisogna saper comunicare, accettare compromessi, essere positivi e propositivi affinché la relazione si mantenga in buona salute. Rimanere chiusi nella propria bottega a borbottare, aspettando che qualcuno faccia qualcosa per te, è una strategia che non porta a crescere: al massimo può portare a una forma di sopravvivenza che può andar bene per qualcuno, ma sicuramente non fa bene all’artigianato fiorentino.
Quindi che futuro vedi? E che futuro affiora dalle botteghe fotografate nel tuo libro?
Cosa sarà dell’artigianato e delle botteghe degli artigiani è un tema troppo grande e troppo connesso al futuro stesso della città per poterlo analizzare in una battuta. Quello che posso dire è che da troppo tempo la città è priva di un progetto identitario e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la città è preda di un turismo becero e inutile quanto dannoso. Sono i tentacoli di una piovra che entrano dappertutto e corrompono tutto ciò che toccano attraverso la fascinazione del denaro. Basta entrare nei più rinomati musei in un giorno qualsiasi per rendersi conto di come la funzione di conservazione del sapere e di sperimentazione sia stata stravolta, tradita e mercificata. Quindi il futuro dell’artigianato fiorentino è inscindibile dal futuro della città. Se Firenze sarà in grado di capire cosa vuole diventare per il prossimo futuro, l’artigianato sopravviverà in funzione di quel progetto, altrimenti è destinato a piegarsi alle logiche del commercio più vile.
C’è una via di uscita?
Un esempio virtuoso da seguire, un filone da assecondare potrebbe essere dare ascolto delle vocazioni che la città esprime: una fra tutte quella del restauro, di cui Firenze è senza dubbio la capitale mondiale, con una lunga tradizione e una profonda conoscenza tecnica e con istituzioni inarrivabili. Penso all’Opificio delle Pietre Dure, ma anche a Palazzo Spinelli e pure ai tanti piccoli laboratori di restauro ancora presenti nel centro storico di Firenze. Sicuramente il restauro può essere una forma di continuità con la tradizione artigiana e al tempo stesso l’unica forma possibile per mantenere acceso quel fuoco di cui parlavamo poco fa.