In “Vanishing Firenze – Arti e mestieri da salvare” (Tethys), del sottoscritto e del fotografo Guido Cozzi, il ritratto di trenta figure “eroiche” dell’artigianato fiorentino e di un mondo che lentamente scompare.
Soundtrack: Kate Rusby, Village Green Preservation Society (http://www.youtube.com/watch?v=iRK6U5vIHCs)
Doratori, intagliatori, decoratori, fabbri, ricamatrici, argentieri, bronzisti, falegnami, liutai, restauratori, rilegatori, orafi, tessitrici, mosaicisti, calzolai. C’è un po’ di tutto nel libro-intervista che, pubblicato questo mese da Tethys su iniziativa della Fondazione Firenze Sapere, io e il collega fotografo Guido Cozzi abbiamo realizzato incontrando e intervistando trenta “reduci” dell’artigianato fiorentino. Giovani e meno giovani, di prima o di quarta generazione, ma tutti accomunati dall’essere fedeli al “vecchio stile” e all’etica non scritta ma rigorosa dell’artigiano, attaccati come licheni al centro storico e ultimi portatori di un “sapere” manuale fatalmente destinato dai tempi, salvo improbabili miracoli, a scomparire.
Non sono per forza i migliori, ma sono certamente veri. E sono un esempio credibile del grande sottobosco cittadino costellato di botteghe, minuscoli laboratori, bugigattoli semibui o stanzoni gelati dove tuttavia ogni giorno si celebra il rito della tradizione. In questo senso tutti costoro sono vanishing, un termine inglese che, come ho scritto nell’introduzione, indica ciò che lentamente ma inesorabilmente evapora: in un tempo abbastanza breve da poter essere percepito ad occhio nudo, ma abbastanza lungo da comportare un’attesa, un trascorrere sensibile. Come una chiazza d’alcool su una superficie liscia, che pian piano si asciuga. Più lento di un cubetto di ghiaccio e più veloce di un fiocco di neve.
Non è solo un omaggio e non è solo un grido d’allarme, perchè questo artigianato non è in imminente pericolo di estinzione. Ma è in pericolo. Un pericolo che aleggia lento e quindi non inquieta. E che nei trenta ritratti affiora qua e là tra sarcasmi e geremiadi, imprecazioni ed aneddoti, amarcord e inattesi ottimismi.
A farlo ci siamo divertiti un sacco, abbiamo riscoperto vecchi amici e ce ne siamo fatti di nuovi. Abbiamo riesplorato il sottofondo di una città che credevano di conoscere bene e che invece ci ha rivelato nuove sfaccettature.
La battuta più bella? Ce l’ha data Simone Taddei, scoglionatissimo artigiano del cuoio che a Firenze chiamano vezzosamente “cuoietto”: “I turisti?”, ha detto. “Un incubo: entrano in bottega e mentre sto lavorando mi attaccano un bottone sulle radici. Le radici?, dico io. Mica sono Kunta Kinte!”.