Cosa spesso induce ristoranti e ristoratori a pubblicizzarsi sui social con spot di un pacchiano che fa ribrezzo? E’ innato cattivo gusto loro o lo strumento necessario per agganciare una clientela a sua volta sempre più kitsch?

 

Sono reduce da un giro sui social, che tramite algoritmo mi bombardano di pubblicità di ristoranti e di altri locali dotati di suffissi fantasiosi ma in cui, in sostanza, si mangia. Molti sono stati aperti ieri ma si definiscono “antichi”, altri vagheggiano un rispetto della tradizione smentita dagli aborti gastronomici che voluttuosamente mostrano in foto e video e così via.

Ma non è della pubblicità mendace nella ristorazione che voglio occuparmi: non è il caso di fare i moralisti, credo che ognuno abbia diritto di cercare di vendere di più e meglio che può la propria merce. Dopodichè saranno i clienti, e magari gli odiatissimi critici, a giudicare.

Ciò di cui voglio occuparmi è un aspetto solo apparentemente più marginale: la bruttezza dei messaggi pubblicitari.

Sì, proprio in senso estetico, di buon gusto, di scelte.

Mi si dirà che un bravo cuoco e un buon imprenditore del settore non è per forza anche un bravo comunicatore. E sia. Ma non è neppure obbligatorio il contrario, visto che certe cadute di stile sono macroscopiche, anzi palesi a chiunque. E poi ci sono i grafici, i consulenti, i guru, i professionisti veri e spesso presunti del settore, pagati apposta per dare suggerimenti auspicabilmente efficaci.

E allora perchè tra queste reclame imperano il kitsch e l’omologazione? Un cattivo gusto tremendo, che in altri tempi sarebbe stato crocifisso sui giornali, su Blob e forse sugli stessi social, ma che oggi imperversa, pare perfino socialmente accettato se non addirittura gradito.

Eccoci al punto, allora. Al dubbio, al tarlo: non è che la pubblicità pacchiana, greve, volgare, spesso riflesso (per fortuna non sempre) di cucina altrettanto pacchiana, è così perchè così la vuole il destinatario finale, il consumatore? Non è che il cliente, fedele specchio della società media, è così ghiozzo da abboccare solo a messaggi pubblicitari ghiozzi quanto lui?

Più ci penso e meno trovo altre spiegazioni. Il mangiare, il mangismo dominante e il mangificio in cui siamo immersi ha trasformato la tavola in un rito pacchiano dove i grezzi, ossia la stragrande maggioranza della gente, sguazza. Come nella moda, dove persone bruttissime acquistano a caro prezzo abiti carissimi convinte che basti indossare quelli per somigliare, almeno vagamente, alle sfolgoranti modelle della pubblicità. Ma quelle, almeno, sono belle davvero. Qui invece si reclamizzano i ristoranti con spot di una bruttezza già palese e di un provincialismo già inarrivabile.

Che cosa mi sfugge?

Alla fine mi torna sempre im mente la solita, illuminante frase di cui ignoro l’autore, ma che calza alla perfezione: per la gente di oggi, mangiare è ciò che la musica rappresentava per la gente degli anni ’70. Infatti, non a caso, negli anni ’70 si è ascoltata anche un po’ della musica più orripilante del secolo scorso. E non solo.

 

Nella foto (da Wikipedia): A Friend in Need, dipinto del 1903 di Cassius Marcellus Coolidge.