Durante il dibattito su un’informazione divenuta appendice del marketing sono stato accusato d’una visione “tenera” del problema. Di cui, invece, a me pare si confondano le cause con gli effetti.
Tempo fa mi hanno dato dell’ingenuo, in senso non del tutto benevolo.
E siccome sono abituato ad ascoltare le critiche, ci ho riflettuto qualche settimana.
Ne ho concluso che, alla mia età e dopo oltre trent’anni di professione, anzichè offendermi, una definizione come quella finiva invece per lusingarmi.
L’ingenuità consisteva, secondo il mio interlocutore, nel continuare a vagheggiare una differenza ontologica e deontologica tra informazione e marketing, senza arrendermi al fatto che il mix dell’una con l’altro sarebbe ormai compiuto e irreversibile.
Che sia compiuto, come in gran parte è, non scalfisce infatti per nulla, a mio parere, la solidità del principio dell’incompatibilità tra i due settori. Anzi, lo rafforza. Mentre la circostanza che a molti colleghi quel fenomeno appaia come qualcosa a cui sia necessario rassegnarsi mi pare invece un’aggravante. O una resa. O un sintomo di miopia, scaturente dall’attribuire la responsabilità del patatrac agli effetti, anzichè alle sue cause. Cui consegue il grosso abbaglio collettivo.
Mi spiego.
Dopo un ventennio di progressiva erosione di spazi e competenze, è già sbagliato dire che la propaganda ha invaso il campo dell’informazione: se l’è proprio mangiata. O meglio comprata, rendendola una subordinata. E ora si ha gioco facile a gabellare l’una per l’altra, nel silenzio spesso un po’ babbeo di lettori ammaestrati (non tutti, per fortuna) e nella cronica inanità di una classe giornalistica incapace di difendersi dall’assalto. Incapace per via, ciò almeno dice la vulgata corrente, della sua crescente debolezza economica.
Mica vero, secondo me.
L’innegabile debolezza economica è derivata, sì, dallo scarso potere contrattuale. Frutto però di colossali e cronici errori di gestione della professione. I quali a loro volta sono stati il portato dell’inadeguatezza istituzionale e della conseguente carenza di rappresentatività della categoria medesima.
Che è la vera madre di tutti i mali: perdendo prestigio e identità professionale, e quindi le proprie funzioni, a favore di una compagine spargola, disunita, contraddittoria e compromissoria, sempre meno sostanza e sempre più tesserino, i giornalisti italiani sono divenuti un peso piuma sia sullo scacchiere dell’industria editoriale, sia presso l’opinione pubblica e presso la politica. Una variabile irrilevante, diciamo.
In questo contesto, sbarazzarsi un po’ per volta di noi, favorendo la sostituzione della figura del giornalista con altre “analoghe”, ma in realtà concorrenti e antitetiche (volontari, aspiranti, gente pagata da soggetti diversi da un editore – tipo dagli inserzionisti – e una pletora di altre ambiguità), è così divenuto facilissimo: la componente professionale è stata espulsa dal sistema, senza nemmeno la possibilità di opporre resistenza.
Compiutasi questa fatale diluizione, risulta ormai frequente, e sembra perfino normale, trovare a pontificare sui massimi sistemi dell’informazione chi l’informazione non la fa, ma fa solo propaganda camuffata da informazione, operando in posizione di colossali conflitti di interesse. Conflitti destinati anch’essi, per assuefazione dell’uditorio, a risultare “normali”. Ecco il prodotto della grande tenaglia che, riducendo tutto in poltiglia, ha azzerato le differenze, tra chi fa ed è giornalista e chi no, come argomentavo tempo fa.
Insomma il male ha radici antiche.
Poi, però, l’ingenuo sarei io.