di FEDERICO FORMIGNANI
Si dice “casa, dolce casa“, ma in latino la “casa” era una stamberga per la servitù: quella dei signori era la domus. Ma il bello è che le radici “ca” (casa) e “fok” (focolare) sono anche “nel gallese, il calédone, il bréttone, l’irlandese”…
L’abate Pietro Monti (1794-1856), nel parlare della formazione dei dialetti gallo-italici – quindi dei dialetti lombardi e dell’Italia del nord – considera d’estrema importanza l’influenza che, a suo dire, avrebbero avuto antiche lingue quali il gallese, il calédone, il bréttone, l’irlandese ed altre affini idiomi. Ricorda infatti il compilatore del “Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como” e del “Saggio di vocabolario della Gallia Cisalpina e Celtica”, che la parola kà, col significato di cucina, è presente in alcune delle lingue sopra ricordate, mentre il termine fok (casa abitata, focolare domestico) è retaggio del parlar antico della Cornovaglia. Molti studiosi di filologia romanza e cultori di dialetti di lingue gallo-italiche, hanno più volte rimproverato all’Abate Monti un’eccessiva disinvoltura nel voler far risalire a tutti i costi l’origine di troppo parole lombarde alle lingue celtiche in genere, ignorando più semplici (e veritieri) agganci col latino.
Sta di fatto comunque che in quasi tutti i dialetti del nord Italia cà è la parola usata per “casa”, mentre foeugh (fuoco, in milanese) significa anche “focolare, luogo domestico”. Dicono gli ambrosiani che “…ogni üsel in del so nid, canta mej che in quel visìn” (ogni uccello, nel proprio nido, canta meglio che in quello vicino): solo l’ambiente familiare, dunque, fa sentire a proprio agio e di ogni ambiente familiare la casa è il luogo di vita e d’incontro per eccellenza. La parola latina per “casa” è, come sappiamo, domus; il vocabolo casa deriva al contrario dal tardo latino. Per i romani stava ad indicare un capanno modesto, un povero ricovero fatto in muratura, paglia e fango, che veniva usato dalla servitù. La domus era invece la casa patrizia, la residenza bella, ben costruita. Per qualche sconvolgimento storico mai appurato – forse un prevalere delle classi inferiori sui nobili e sui potenti – la parola “casa” finisce per scalzare quella di domus, che verrà da allora in poi abbandonata, salvo che in Sardegna, luogo in cui il vocabolo latino sopravvive fino ai nostri giorni, proprio in virtù della posizione geografica dell’isola.
Casa è dunque la parola italiana che si trasforma per apocope in cà. La cà è un bene che i lombardi cercano di accaparrarsi, nel corso della loro esistenza, anche a prezzo di grossi sacrifici finanziari. Tali sacrifici verranno in seguito ampiamente ripagati, lo sanno tutti. Infatti non è a vanvera che i milanesi proclamano ai quattro venti che “…la cà e la miée hìn i robb che se god pusée” (la casa e la moglie sono le cose che più si godono), con buona pace delle mogli. Il pezzo di terra è forse l’investimento più sicuro, in tempi di persistente inflazione. Lo ricorda il proverbio: “…cà casca, cens cèssa, terren ten” (casa cade, nobiltà finisce, terreno tiene). Nonostante ciò la riconosciuta saggezza popolare consiglia di spendere i famosi quatter ghèj (quattro soldi) in un sia pur modesto tocchèll de cà (pezzetto di casa). Le imprecazioni verranno in seguito, quando ci si accorgerà di aver acquistato una cà de cartón (una casa di cartone), magari modernissima, ma dalle pareti troppo sottili, cattive custodi delle intimità familiari.