Memoirtage (*) è una nuova rubrica di viaggi e ricordi, tra memoria e cronaca. La prima puntata è dedicata a Roccatederighi, piccolo borgo sospeso tra Maremma e Colline Metallifere. Italia profonda, Toscana profonda.
C’è stato un tempo in cui, quando nei pomeriggi d’inverno passavo le ore guardando il paesaggio dall’alto della finestra, coi vetri gelati che vibravano al vento, la mia pazientissima nonna mi raccontava di luoghi lontani oltre le colline alte, scure e boscose che tracciavano l’orizzonte del paesello. Luoghi a lei familiari, ma che a me apparivano invariabilmente remotissimi, arcani, nebbiosi. E dove, a qualunque costo, prima o poi sarei dovuto andare.
Roccatederighi era uno di quelli. Lei me lo descriveva con parole sapienti, come un castello sulla cima di una rupe, al termine di una strada stretta e sinuosa quasi intagliata da una mano gigantesca tra le selve a cavallo tra le nostre terre senesi e la malsana Maremma di Pia de’ Tolomei.
Così la mia fantasia galoppava e io vagheggiavo interminabili, avventurose spedizioni verso quelle mete misteriose.
Nello specifico, però, l’oggetto della mia curiosità era soprattutto il Tederighi.
Chi era costui, che al castello dava il nome? Che faceva, perchè era lì? Il cognome duro, un po’ tedesco, mi suonava neghittoso e mi faceva pensare a un tizio alto e magro, dal viso scavato, dall’espressione severa. Un Guerìn Meschino, o un soldato di ventura, solitario, accigliato, asserragliato tra mura spigolose di pietra grigia, su cui si aprivano piccole feritoie affacciate sul nulla, dalle quali lui guatava comunque torvo e inquieto.
Poi è passato oltre mezzo secolo e nel frattempo a Roccatederighi ci sono stato davvero, più di una volta. Ma mai con la calma necessaria per verificare le fondamenta del mio immaginario infantile. Fino a quando, quasi per caso, non mi si è presentata l’occasione di riprendere la caccia al misterioso cavaliere e alla sua dimora e di dar seguito ai giochi di fantasia di allora: aggirare i trabocchetti, ingannare con astuzia e coraggio i bravi che lui di sicuro ha disseminato tra i vicoli per dissuadere i visitatori sgraditi, spiare e osservare, essere a mia volta spiato da vecchie vedove nerovestite e un po’ arcigne, forse custodi di segreti inconfessabili, nascoste dietro alle tendine, proprio come quelle che passavano lente laggiù in strada mentre io ascoltavo rapito i racconti della nonna.
Roccatederighi è in effetti un paesino antico, raccolto, velato da quell’impalpabile patina polverosa – polvere vera, non posticcia – che caratterizza le comunità di periferia, marginali, fuori dal giro. Duecentocinquanta abitanti tra i quali molte cose, e non solo i miei interrogativi, paiono rimaste appese, quasi congelate, per un tempo indefinito che va approssimativamente dal dopoguerra ad oggi. E dove ormai anche il fatale passaggio della mano infelice dei geometri di provincia non è più neppure considerabile un danno, nè una gratuita fonte di colore giornalistico, ma si è consolidata in una sorta di stabile testimonianza di archeologia edilizia contemporanea: l’abbondante cemento da loro sparso negli anni sessanta si è sbiancato, dilavato, screpolato, gli intonaci spalmati con troppa disinvoltura sulle antiche facciate di pietra si sono ammalorati, diventando tutt’uno con esse e con la loro lenta rovina. Gli sciagurati avvolgibili di plastica, imposti in quella stagione del rinnovamento a tutti i costi, sono diventati sbilenchi o guasti, le tettoie di lamiera ondulata e vetroresina si sono fatte muscose, scolorite, pressochè rassegnate al loro destino.
Ne esce un quadro opaco e pallido, fragile e affascinante, in cui sembra che ogni cosa respiri piano e in silenzio, sottovoce, come per far durare il più a lungo possibile l’ossigeno rarefatto del passato.
La vita non manca, a Roccatederighi. Ma è come se sobbollisse appena su una fiamma tenuta al minimo. Alle pendici del borgo il bar è deserto, ma reca i segni pubblicitari di un certo passaggio turistico. Lo rafforzano un paio di trattorie sul rustico, sicura risorsa estiva. D’inverno, non so. Nei pressi, in uno slargo, dei cippi vagheggiano tre delle cinque contrade nelle quali, credo, il paese si divide.
Qui finisce la Roccatederighi bassa e comincia quella alta.
L’ascesa alla rocca – e alla roccia, perchè il paese culmina davvero su uno spuntone di roccia a picco sulla piana maremmana – è un’erta di vicoli ombrosi, di portoni e di portali, qualche balcone e qualche inattesa piazzetta, seconde case serrate che ne affiancano altre semplicemente vuote, forse in multiproprietà tra eredi litigiosi o disinteressati al lascito del nonno, defunto vent’anni fa. E lì rimaste, malinconicamente deserte. Qualcuna è in vendita. Con poche speranze di successo, come gli avvisi ormai sbiancati dal sole fanno temere. E intanto si sale, si sale. In un anfratto ecco tre gattini, troppo docili per essere selvatici. Sento un rintocco di campane, alzo lo sguardo per capire dov’è il campanile e vedo solo alte mura a strapiombo su fondachi chiusi alla buona, tanto chi vuoi che venga a rubare cose che non ci sono? All’improvviso ecco un cortile con una casetta bassa, bianca con le finestre di blu profondo, così sfolgorante che sembra d’essere su un’isola greca. E’ carina, ma fa a pugni col velo pulviscolare che avvolge tutto il resto, rendendolo ovattato. M’inerpico coraggiosamente su una falsa pista al termine della quale trovo solo una targa celebrativa e un passaggio sbarrato. Torno indietro e alla fine, da uno scorcio, vedo il cielo. Devo essere davvero arrivato, penso.
C’è una chiesa, purtroppo serrata, e un piazzale con un muretto sul quale, per tre quarti rivolta verso di me e per un quarto verso il vuoto sottostante, sta la statua di un santo benedicente dall’aria familiare, con il saio, la barba e le braccia aperte in segno di accoglienza. Potrei sbagliare, ma mi sembra Padre Pio. Che ci fa qui Padre Pio? Trovo tutto molto strano. Mi guardo intorno. Forse il Tederighi mi osserva già. Il cielo intanto rumoreggia, il vento fischia, le nuvole minacciano pioggia. Ma a questo punto non posso arretrare. Aggiro la chiesa dal vicolo laterale ed eccomi finalmente al cospetto del promontorio di roccia, l’ultimo lembo di Roccatederighi. Cadono le prime gocce, sferzanti. Dall’alto riconosco la Maremma piatta, i boschi delle Colline Metallifere, i poggi di una campagna profonda, mediterranea, rimasta mezzingola, che forse aspetta solo di essere riconquistata da capitali freschi (e un po’ minacciosi) dopo tanto e in fondo tranquillo oblio. Nel cortile a fianco, le vestigia di una festa paesana. Scruto dentro le finestrelle di qualche cantina e le trovo piene di cianfrusaglie e vecchi mobili. Puro modernariato da mercatino che però, direi, qui giace più in attesa di uno svuotatutto che di un improbabile compratore.
Inizio la discesa e, come all’andata, non incrocio nessuno. Un cancello sbilenco introduce a quello che fu il vialetto di accesso a qualche casa signorile ed ora è una semplice giungla. Mi soffermo a leggere le iscrizioni su un antico architrave e ad ammirare la filigrana delle ragnatele, antiche anch’esse, che lo intarsiano.
Del Tederighi e della sua dimora, nessuna traccia. Gli sto girando intorno, lo sento. Ma non trovo la via. Lui si nasconde tra le pieghe delle mie reminiscenze. O forse mi tiene d’occhio da qualche feritoia, preoccupato per la mia insistenza. O magari sogghigna divertito dal mio vagare a vuoto. Intanto – passo dopo passo, chiasso dopo chiasso, vicolo dopo vicolo – il cammino mi sta inesorabilmente riportando a valle, lontano dallo sfuggente castellano. Colgo di sottecchi un cartello vetusto che indica la porta d’ingresso al castello: “XII secolo”, dice. Proprio accanto, l’insegna sbrecciata del già “Caffè L. Andreini”, chiuso con un bandone. Quasi mille anni in mezzo metro.
Imbocco un altro paio di passaggi senza uscita che tra muschi e scalini sconnessi conducono a fondi abbandonati, qualcuno addirittura rovinato. Ombre, anfratti umidi dove il sole forse non batte mai. Qua e là vasi da fiori e rari portoni d’ingresso ben curati, ridenti, che fanno immaginare abitanti sereni. Ma non c’è anima viva. Quasi in fondo, sento il suono di un utensile in azione. Lo seguo: è un placido pensionato che smeriglia gli infissi, nascosto in un cortiletto. Mi saluta sorridendo. Ricambio. Scendo ancora. Nella parte bassa, fuori dalla cinta medievale, sotto a una lapide che su un crocicchio rammenta con una certa solennità il passaggio di Garibaldi, mi imbatto in una vecchia signora a spasso con il cane.
Le chiedo della rocca, di dove sia, se sia visitabile.
“E’ privata“, mi risponde.
“E come ci si arriva?“, insisto io.
E lei: “Non mi ricordo, saranno trent’anni che salgo su“.
E’ qui che capisco che Messer Tederigo ha vinto un’altra volta.
TESTATI NEI PARAGGI E CONSIGLIABILI:
Ampeleia, azienda biodinamica ai piedi di Roccatederighi. Ottimi Cabernet Franc in un contesto naturalistico d’eccezione, piccolo ristorante interno con prodotti propri, vendita diretta.
(*) MEMOIRTAGE è la crasi tra memoir e reportage, ossia tra memoria e cronaca. In pratica una rubrica (a cadenza, lo premetto, assai irregolare) in cui mi divertirò, tra fatti, ricordi e suggestioni, a raccontare luoghi e situazioni in cui mi capita di ritrovarmi dopo lungo tempo. Un po’ un esercizio di stile, un po’ racconto e un po’ giornalismo, ma sempre verità. L’unica che, letteratura a parte, dà un senso allo scrivere.