Ingenua o provocatoria che sia, la domanda viene spontanea di fronte alla sontuosa bontà di certe vecchie annate premiate dagli anni trascorsi e non dai punteggi e dalle stelle più o meno compiacenti.
Soundtrack: Alela Diane, “Pirate’s gospel”, http://www.youtube.com/watch?v=BVGO5bO8p2I
La domanda, posta sapientemente a cavallo tra l’ingenuo e il malizioso, l’ha fatta giorni fa un collega – che per rispetto della privacy non nominerò, prima di aver ottenuto il suo esplicito consenso – al termine della degustazione di dodici Brunello d’annata (1983-1999) di grandi e noti produttori, organizzata domenica scorsa dall’ottimo Carlo Macchi al ristorante di Fizzano, il bel resort di Rocca delle Macie, a coronamento degli “stati generali” (come lui stesso li ha chiamati) della rivista online Winesurf.
“Ma se i vini che producevano a Montalcino erano così buoni”, ha detto l’amico, “che bisogno c’era di cambiare stile?”. Dove lo stile evocato – il cui spettro, tra qualche beffardo sorriso, aveva aleggiato sull’intera seduta – era senza dubbio alcuno quello della “svolta americana” della metà degli anni ’90.
Interrogativo legittimo e naturale, di fronte a un Case Basse 1983. Un quesito pieno di buon senso e di genuino stupore: perché fare qualcosa di diverso quando ciò che si fa è non solo eccellente ma, come hanno dimostrato gli anni trascorsi, capace di resistere all’usura del tempo, di non deludere, di lasciare intatte le aspettative?
La risposta è complessa e non riflette solo motivazioni strettamente enologiche, ma ne abbraccia altre di natura più squisitamente socioeconomica.
Senza addentrarci buttiamo lì alla rinfusa, affastellando i ragionamenti, consapevoli, tuttavia, che il risultato non cambia: la concomitante esplosione della produzione susseguente a un irrazionale boom degli impianti (nati spesso in aree – eufemismo – poco o nulla vocate), l’entrata sulla scena di nuovi, sovente impreparati o troppo disinvolti produttori, la violenta crescita della domanda sotto la spinta di un’imponente campagna di stampa (compiacente) e di marketing tendente a “spingere” i prodotti aventi determinate caratteristiche gradite ai consumatori d’oltreoceano, un massiccio incremento degli investimenti produttivi e speculativi, trascinati oltre ogni logica e misura dall’illusione di una domanda in perenne tenuta, con la creazione di un diffuso e oneroso indebitamento rivelatosi sostenibile unicamente attraverso l’incremento del fatturato legato alla crescita di prezzi tuttavia sempre meno remunerativi e la parallela, artificiosa ascensione delle quotazioni fondiarie portate a garanzia, con il progressivo aggravamento del fabbisogno finanziario delle aziende dovuto a lunghi immobilizzi di capitale, il tutto culminato in una sorta di effetto “doping” che ha provocato la consapevole o inconsapevole complicità e cointeresse di tutti i soggetti coinvolti nel “sistema Brunello” (produttori, giornalisti, politici, istituzioni, operatori economici, sistema bancario, pubblica amministrazione), intendendo per tale un’economia locale largamente intesa e interamente ruotante attorno al core business del vino ma coinvolgente turismo, enogastronomia, sistema ricettivo, mercato immobiliare, fabbrica del consenso e dei voti, poltrone e lauti compensi.
Per effetto di tutti questi concomitanti fattori Montalcino si è trasformata, nel giro di pochi anni, da semplice area di produzione di vini di pregio in un coacervo politico-economico wine-oriented. Il tutto non nell’arco e con gli alti e bassi, gli inevitabili assestamenti e gli aggiustamenti di mira del lungo periodo, ma in un solo decennio.
Ed ora torniamo al punto iniziale e alla domanda ingenuo-maliziosa del collega di fronte a una batteria di grandi bottiglie di Brunello invecchiate benissimo: “Ma se i vini che producevano erano questi, così buoni, a Montalcino che bisogno c’era di cambiare stile?”.
Appunto.