Soundtrack: “While my guitar gently weeps”
E’ morto improvvisamente Prince, un artista controverso, trasversale, iconico, transgenerazionale. Con un paradossale destino: avere una celebrità ingombrante, ma inferiore al suo ancora non del tutto compreso talento.
E così se n’è andato anche Prince, fenomeno transgenerazionale del funky-pop a cui, diciamolo subito, lo stucchevole nomignolo di “genietto di Minneapolis“, come la stampa popolare l’aveva ribattezzato, andava certamente stretto.
E’ morto oggi in circostanze, per ora, misteriose. Chissà se questo contribuirà ad alimentarne il mito e leggende più o meno necrofile.
Quel che è certo è che Prince era assai più di Prince, insomma più della popstar nota al grande pubblico per alcuni successi planetari degli anni ’80, culminati forse in quel “Purple Rain” che segnò anche l’affermazione del videoclip come strumento principe (appunto) della promozione musicale dell’epoca. L’epoca di MTV e di Videomusic.
Prince Rogers Nelson da Minneapolis aveva tutto per sfondare. E infatti aveva sfondato: talento, indole visionaria, alta considerazione di sè, senso del glamour, capricciosità varie, meticolosità artistica, intuito folgorante, indiscutibile genio compositivo, maniacalità ossessiva, gran tecnica strumentale (ascoltatelo nell’assolo qui sopra). Un genio obliquo però, sospeso tra le schegge di molte influenze, niente affatto ancorato a (ed eppure anche esplicitamente tributario de) gli stereotipi delle sole origini black.
Era un artista controverso insomma, polistrumentista e arrangiatore finissimo, capace di livelli espressivi e interpretativi diversi, oscillanti come un sinistro pendolo di Poe tra l’intrattenimento e il jazz, fondendo elementi eterogenei ma spesso così ben coesi da risultare inscindibili e, quindi, originali.
Sballottato tra paragoni un po’ scomodi e un po’ banali (era l’alter ego di Michael Jackson o il nuovo Stevie Wonder, ci si chiedeva allora sui rotocalchi, mentre altrove si evocava addirittura lo spettro angelico di Ellington), Prince ha sempre giocato a nascondino col music business e col proprio carattere, battagliando con l’industria discografica di cui era – anche, a volte compiaciutamente e a volte suo malgrado – icona.
Ha stupito, strabiliato, conquistato, gigioneggiato.
Eppure, sotto il profilo artistico, pur ascose da tonnellate di marketing, è difficile trovare sue prove realmente deboli o prive di un’intrinseca ragione d’essere. Poco condivisibili, magari, ma mai ovvie, mai superficiali, sovente difficili da decifrare, composite, stratificate, lucenti, taglienti.
Come dimenticare, infine, almeno per chi è della sua generazione, l’harem di donne bellissime e ammiccanti, elemento imprescindibile degli show e delle liriche. La mia preferita era Apollonia Kotero (“…your motosicletta…“). La sua “rivale”, Vanity, è morta qualche mese fa.
E la vostra preferita, qual era?
Nel momento in cui Prince ci lascia, la sua vera storia critica è forse ancora tutta da scrivere.