In latino, villaggio si diceva “pagus”. In greco, κώμη.
Vista la dimensione di quasi invisibilità al quale in tutti i modi di cerca di ridurlo, “giornalisticomio” o “giornalistopago” mi paiono dunque i neologismi più adatti a definire lo scandalo che sobbolle cupo dietro ai paraventi di distrazione di massa del post-covid: quello della gestione politico-giornalistica della giustizia, emerso attraverso le intercettazioni di Palamara e accoliti. Su cui non a caso quasi tutti tacciono. O, al massimo, imbarazzati mormorano.
E’ invece lo scandalo degli scandali, la madre di tutti i medesimi, la punta di un mostruoso iceberg sommerso nonchè la dimostrazione nero su bianco di qualcosa di finora solo sospettabile e percepibile. E che costituisce dà decenni il male profondo dell’Italia: l’esistenza di una cupola intoccabile che eterodirige il paese a colpi di inchieste giudiziarie e di informazioni pilotate proprio da quelli che si ergono a modelli e a censori.
Succedesse altrove, crollerebbe il mondo e cadrebbero a pioggia teste importanti.
Ma siccome succede in Italia, si tenta di spacciarlo per un piccolo, trascurabile smottamento in un villaggio di provincia, meritevole di trenta righe in cronaca. Non una giornalistopoli, ma un trascurabile giornalistopago, appunto.