…e forse farei bene: se i giornalisti non sono in grado d’invertire la rotta d’una professione in caduta libera e la politica non provvede, perchè non le conviene, il vicolo s’è fatto cieco.
E’ da un po’ che, a ragione, molti colleghi mi rimproverano di non occuparmi più, qui su AF, delle questioni professionali di cui tanto ho scritto in passato. E di farlo, anzi di non farlo in un ahinoi lungo momento storico in cui le cose, per dirla eufemisticamente, stanno precipitando. Ma siccome, secondo me, sono precipitate da un pezzo, ecco il motivo del mio disinteresse: la rassegnazione.
Cominciamo a dire che una larga parte della categoria – in sostanza chi ne ha più a cuore il destino – continua a pensare ai giornalisti unicamente come a cronisti di quotidiano o di agenzia. E, di conseguenza, ragiona in quell’ottica.
E’ però un abbaglio colossale. E significa che, soprattutto ai vertici, non si ha la più pallida idea di quanto vasto e articolato sia il mondo giornalistico reale con la sua multiforme galassia di giornalisti attivi in periodici, web, stampa specializzata. Galassia quantitativamente uguale ormai, o forse perfino superiore, a quella di chi lavora in cronaca. Si parla di decine di migliaia di colleghi.
Già questo non può che condurre a una visione parziale della professione e dei suoi problemi. E a orientamenti, provvedimenti, strategie altrettanto monchi o parziali. In pratica, c’è un terzo dei giornalisti italiani di cui nessuno si occupa concretamente.
Da oltre un decennio, inoltre , le redazioni (tutte) sono in trincea e i posti in bilico tendono a rendere i singoli più arrendevoli, sotto ogni punto di vista. Nè si può dargli torto. Dal canto loro i liberi professionisti (per la giusta nozione vedere qui) non esistono più, hanno chiuso bottega, sostituiti da torme di ex contrattualizzati, pensionati arzilli, aspiranti, sedicenti, equivocanti, dopolavoristi: il lassismo del sistema ha infatti prima privato gli “autonomi” di ogni certezza e tutela e poi li ha facilmente trasformati in una massa indistinta alla comprensibile ricerca di un modo qualunque per sbarcare il lunario. Incluse le attività incompatibili con lo status di giornalista: uno squallido spettacolo quotidiano. A ciò si affianca l’ormai accettata equiparazione di fatto tra iscritti all’OdG e non iscritti, ma che svolgono attività “affini”, in un contesto in cui non è più chiaro chi è chi nè chi fa cosa. Con buona pace della trasparenza dell’informazione e dei conflitti di interesse anche più plateali coltivati impunemente sotto gli occhi di tutti.
In pratica si parla di una professione sostanzialmente liberalizzata e privata di una sua identità: di qua si entra nell’OdG senza competenze nè redditi, ma ci si resta a vita contro ogni evidenza, di là si scrive sulla stampa senza essere giornalisti, senza avere interesse a diventarlo e, cosa più grave di tutte, senza alcuna deontologia da rispettare.
Per capire come questo sia potuto accadere, qualcuno vada a vedersi gli scandali della sinecura di un sindacato cronicamente assenteista, dei contratti promessi e mancanti da mezzo secolo, della comica senza fine dell’equo compenso e della grottesca, recente gestione della previdenza Inpgi (già Inpgi2), di un OdG ostaggio di correnti e di signori delle tessere.
In questo deserto, il giornalismo inteso come tale – e non come un generico aggregatore di notizie, interessi, reclame che si cerca di spacciare con la scusa della “professione che cambia” – non può sopravvivere e attende solo che venga formalizzata la sua dipartita.
Bisogna d’altronde anche ammettere che i nemici dell’informazione, ossia gli antagonisti naturali dei giornalisti (mercanti di propaganda, fake news e consigli per gli acquisti), sono diabolici e, grazie a una multidecennale, maliziosa ma inesorabile infiltrazione nella nostra categoria riescono ormai a condizionarla dall’interno.
La più nota e diffusa di queste tecniche è l’incoraggiamento, anzi l’ormai acquisito consolidamento a sistema, dell’economia della riconoscenza: una sindrome che ha reso larga parte dell’ultima generazione di giornalisti vassalla e poi perfino grata verso chi (editori e sindacato nelle sue varie diramazioni), ha svuotato di funzione, redditività e prestigio la classe giornalistica.
Cavalcata con successo negli anni Duemila la fase dell’operaizzazione del nostro lavoro e condotta durante gli anni Dieci a maturazione la dilettantizzazione del medesimo (nel trionfo del grottesco principio secondo il quale, anzichè farmi pagare, pago per lavorare e ringrazio pure chi me lo consente), si punta ora, senza esitazioni, alla soluzione finale: trasformarci tutti in portavoce inconsapevoli di qualcuno e di diventarne tributari.
Sono il solito catastrofista? Non credete che vada così? Eppure è proprio in questo modo. Anche a causa della mancanza di un gendarme (Ordine, consigli di disciplina, etc) che abbia mezzi, struttura e volontà per far rispettare le regole basilari del giornalismo: terzietà, indipendenza, fedeltà ai fatti, verifica delle notizie, curiosità, diffidenza, dubbio, consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione. Del resto, non è semplice fare il poliziotto quando la maggioranza dei consociati è diventata fuorilegge.
Così, ad esempio, mi trovo a dover chiamare collega chi si è guadagnato e mantiene l’iscrizione all’albo non solo scrivendo a getto continuo solo pubbliredazionali non dichiarati, asseverati come articoli da direttori compiacenti e pagati non dall’editore, come sarebbe giusto e normale, bensì direttamente dall’inserzionista. Il quale poi se ne vanta, proclamandosi sostenitore della pluralità dell’informazione. Oppure, sempre ad esempio, mi trovo a fianco di chi, senza qualifica e agendo “per hobby“, in pratica mi ruba il lavoro. Lavoro che, essendo gratuito, il beneficiario è ben lieto di assegnargli.
Siamo becchi e bastonati, cos’altro volete che continui a scrivere?